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Missione in Libia e impegno per i diritti umani - videoconferenza con Fassino, Pinotti e Mirabelli

27 Luglio 2020

Testo dell'intervento di Franco Mirabelli»
Testo dell'intervento di Piero Fassino»
Testo dell'intervento di Paolo Petracca»
Testo dell'intervento di Roberta Pinottii»

Testi degli interventi:

Sen. Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato:

Con Associazione Democratici per Milano abbiamo deciso di promuovere questo incontro, secondo noi importante e necessario perché crediamo che ci debba essere un confronto sul tema della missione italiana in Libia e su quali sono gli strumenti necessari e migliori per intervenire in quell’area, soprattutto per tutelare i diritti umani, per evitare che continui il massacro, che continuino le torture, che continuino ad esserci i lager.
Credo che sia necessario un confronto perché la discussione che si è sviluppata durante e dopo la votazione delle mozioni in Parlamento è a carattere di contrapposizione ideologica, in cui si rischia di perdere la complessità della questione che abbiamo di fronte e in cui si rischiano di perdere anche le ragioni della scelta che ha fatto il Parlamento.
Quella del Parlamento è sicuramente una scelta che si può non condividere ma ha delle ragioni precise e con queste bisogna confrontarci, così come bisogna confrontarsi con i temi che vengono posti da chi, in particolare nel mondo cattolico, non condivide la scelta che abbiamo fatto di rinnovare la missione in Libia. Io penso che discussioni come queste servano perché credo che serva una discussione sul merito delle questioni, altrimenti rischiamo, come è successo in alcuni passaggi, di ridurre tutto ad una divisione tra buoni e cattivi che è assolutamente falsa; tra chi difende i diritti umani e chi invece se ne disinteressa, mentre in realtà non è così.
Io penso che tutte le posizioni siano legittime ma allo stesso tempo dobbiamo tutti avere l’onestà intellettuale di capire che ognuno di noi, qualunque posizione abbia, consideri una priorità la questione dei diritti umani e del superamento dei campi libici, della condanna delle torture e del lavoro per impedire che ci siano ulteriori torture.
Non penso che si possa accettare una caricatura per cui la missione in Libia serva soltanto a impedire le partenze dei barconi.
La realtà di questi giorni dimostra che anche i flussi dell’immigrazione sono cambiati. Oggi il Ministro dell’Interno è a Tunisi perché da lì ormai arriva la stragrande maggioranza degli sbarchi fantasma, così come succedeva anche prima.
La situazione è molto complessa e credo che vada affrontata per quello che è.
Proviamo a dare un contributo con una serie di interlocutori importanti.
Roberta Pinotti è stata Ministro della Difesa in un precedente Governo e ha una conoscenza approfondita della missione in Libia, del suo significato e anche dei confini che ha la missione italiana in Libia.
Piero Fassino può dare una mano importante a collocare questa vicenda dentro un’area geografica fatta di grandi tensioni.
Paolo Petracca è il Segretario Provinciale delle Acli di Milano e può rappresentare autorevolmente le opinioni che soprattutto il mondo cattolico ha espresso e che considerano un errore il rifinanziamento della missione.

On. Piero Fassino (Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati):
Grazie dell’opportunità di un dibattito su un tema cruciale su cui è bene cercare di riflettere e approfondire tutti gli elementi.
La vicenda libica per essere compresa ha bisogno di essere collocata in un contesto Mediterraneo-Medio-Orientale particolarmente difficile e critico.
Dall’Iran fino allo stretto di Gibilterra, tutta questa enorme fascia del Medio-Oriente e del Mediterraneo è investita da una sequenza di criticità e di instabilità, seppur di segno diverso tra loro.
L’Iran è un Paese critico per molti aspetti.
L’Iraq è percorso da uno scontro sanguinoso tra sunniti e sciiti e ha una continua instabilità politica.
La Siria è investita da una guerra civile che quest’anno è al 10° anno.
Lo Yemen è anch’esso investito da una guerra civile.
Gibuti è un punto delicato al pari di tutto il Corno d’Africa, cioè Somalia, Eritrea e perfino l’Etiopia, al cui Presidente è stato dato il premio Nobel per la pace, da circa un mese è investita da scontri interetnici particolarmente duri che hanno causato decine di morti.
L’Egitto è un Paese problematico anche se, forse, in questa situazione può apparire come più stabile.
Il Sudan recentemente è stato investito da grandi cambiamenti e, quindi, è alla ricerca di una stabilità che consenta la transizione verso la democrazia.
Il Libano è un Paese percorso da una costante instabilità politica interna, data da un’evidente contestazione di una parte larga della società civile nei confronti della classe dirigente inamovibile che guida la nazione da decenni.
La vicenda israelo-palestinese sappiamo tutti che è in un passaggio molto delicato, date le intenzioni - per ora sospese - di Netanyahu di procedere all’annessione della valle del Giordano e degli insediamenti ebraici in Cis-Giordania.
L’Algeria è caratterizzata da un’instabilità politica non meno rilevante perché, come in Libano, anche lì c’è un movimento della società civile che contesta la classe dirigente del Paese.
Il Marocco, probabilmente, è il Paese più stabile dell’intera area.
L’intera grande fascia che va dallo Stretto di Gibilterra fino all’Iran, quindi, è investita da guerre, instabilità politica, transizioni incerte e, dunque, c’è una situazione molto difficile.
Questo è, quindi, un primo tema.
La Libia si colloca dentro a questo contesto e questo è un primo elemento che spiega perché nella guerra libica agiscano molti più attori rispetto a quelli interni.
La guerra libica, infatti, non è soltanto una guerra tra il Presidente Serraj e Haftar ma non è neanche soltanto una guerra che coinvolge altre organizzazioni politiche e militari libiche. Sappiamo tutti che dietro i protagonisti del conflitto armato ci sono altri conflitti, tanto che si è introdotta un’espressione politologicamente nuova che è la “guerra per procura” proprio perché dietro a Serraj c’è la Turchia, che ha schierato i suoi contingenti e i suoi armamenti in Libia e dietro Haftar ci sono l’Egitto e la Russia a cui si aggiunge un atteggiamento non ostile della Francia.
Dobbiamo sapere, quindi, che la crisi libica non è circoscrivibile alla Libia in quanto tale ma è parte di una crisi più generale che segna un alto grado di instabilità, di insicurezza e di criticità in tutto il Mediterraneo.
Questo pone un problema gigantesco all’Europa.
Il Mediterraneo non è la frontiera Sud dell’Europa: ormai il Mediterraneo è la regione Sud dell’Europa.
Tutto ciò che accade nel Mediterraneo e in Medio Oriente investe direttamente l’Unione Europea.
L’Unione Europea, quindi, ha il dovere di avere una strategia nei confronti del Mediterraneo e del Medio Oriente. In termini di principio questa strategia c’è perché non si ha una riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri europei che non approvi una dichiarazione e un documento sulla Libia ma poi quella politica non riesce a tradursi in un’azione efficace perché dietro le dichiarazioni e i documenti comuni ci sono in realtà atteggiamenti differenziati e spesso opposti dei Paesi europei che finiscono per rendere sterili le dichiarazioni che l’Unione Europea assume e, dunque, rendono poi difficile poter agire.
Tornando alla vicenda libica, si vede che è parte di un quadro di instabilità regionale molto più ampio.
La Libia, come quasi tutti i Paesi del Medio Oriente, è figlia nella sua composizione e nei suoi confini di scelte che sono state operate dalla diplomazia europea in altri tempi.
È sufficiente vedere come sono stati tracciati i confini tra l’Iraq e la Siria per averne un esempio. Tanto che si discute se la Siria così come si configura abbia un fondamento storico, politico o culturale.
Lo stesso ragionamento vale per la Libia, che è costituita da due regioni che hanno avuto nel corso del tempo etnie e politiche molto diverse tra loro.
È dopo la guerra italo-turca del 1911, con la vittoria dell’Italia sull’Impero Ottomano che l’Italia, conquistando la Libia, le dà quei confini che sono rimasti anche oggi ma che in realtà sono figli del processo bellico e politico di quegli anni piuttosto che della Storia e della cultura della Libia.
Questo spiega molto del fatto che ci sia un Parlamento a Tripoli e uno Tobruk, ciascuno con un Governo, così come da sempre la Cirenaica rivendica l’autonomia se non addirittura l’indipendenza rispetto a Tripoli.
Tutto questo è dentro al conflitto libico.
La Libia non ha una storia nazionale libica ma è la somma di una serie di aree, di regioni e di tribù che ad un certo punto si sono configurate come parti di uno Stato che però non ha identità e non ha storia.
Questo spiega anche la guerra e la difficoltà di trovare una composizione.
La Libia, inoltre, è in un punto strategico, in quanto si trova al centro del Mediterraneo e di quella fascia dell’Africa del Nord che va dall’Egitto al Marocco e si spinge a Sud verso il deserto del Sahara, verso il Sahel e verso zone particolarmente critiche, come il Mali, il Burkina Faso e Niger.
Il Sahel negli ultimi anni è caratterizzato da una particolare instabilità, segnata dall’infiltrazione di cellule terroristiche, prima Al Qaeda e ora Daesh.
Non dimentichiamoci che poco distante da quei Paesi c’è la Nigeria dove opera Boko Haram.
La Libia è in un punto molto delicato ed è il territorio di transito dalla regione del Sahel e del Centro Africa verso il Mediterraneo e verso l’Europa.
Questo spiega perché la Libia sia diventata uno dei luoghi di transito principale dei flussi migratori.
I flussi migratori che arrivano dalla Libia sono ormai soltanto in minima parte costituiti da donne e uomini di origine magrebina e in gran parte costituiti da popolazioni che arrivano da Niger, Mali, Repubblica Centrafricana, Nigeria.
Quando si affronta il dossier libico, quindi, si affronta un dossier complesso e difficile su cui interagiscono una molteplicità di attori (Russia, Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar) e da un contesto caratterizzato dalla polverizzazione degli attori (Haftar e Serraj sono i due principali che tutti conoscono ma in molte altre aree e altre città ci sono poteri che si costituiscono in modo autonomo anche rispetto a Serraj e Haftar).
Infine, la Libia è in un punto strategico della connessione tra Africa e Europa e questo spiega perché sia così decisivo ciò che avviene lì anche rispetto ai flussi migratori nell’Unione Europea.
Pacificare la Libia è dunque fondamentale per tutte queste ragioni ma proprio per queste ragioni è anche complesso e difficile.
Servirebbe, quindi, un’Unione Europea capace di parlare con una sola voce e di agire con una sola mano. Formalmente è così e l’Unione Europea riconosce il Governo Serraj come unico Governo legittimo della Libia, così come indicato dalle Nazioni Unite.
L’Italia, coerentemente con questo impianto, riconosce il Governo Serraj e ha l’Ambasciata aperta a Tripoli. Siamo l’unico Paese dell’Unione Europea in questo momento ad avere l’Ambasciata aperta in Libia.
Sappiamo, tuttavia, che questa posizione unitaria dell’Unione Europea deve fare i conti con un diverso atteggiamento di alcuni Paesi europei, in particolare la Francia e, prima che ci fosse la Brexit, anche la Gran Bretagna.
C’è, quindi, una difficoltà oggettiva da parte dell’Unione Europea di agire e di essere in grado di avere un ruolo attivo per sedare il conflitto e avviare ad una soluzione politica.
Tutte le volte che si apre un conflitto da qualche parte del mondo, la prima cosa che tutti diciamo è che non ci può essere una soluzione militare e la soluzione è politica ma se poi andiamo a vedere la dinamica di quelle crisi, l’unica cosa che continua ad agire sono le armi.
È così in Siria, Yemen, Libia e ovunque ci sia un conflitto perché la capacità di far prevalere la soluzione politica sulla soluzione militare è debolissima e spesso inefficace.
Questo la dice lunga sulla debolezza della comunità internazionale nel perseguire politiche di stabilizzazione, di peacekeeping e di sedazione dei conflitti. Al di là delle giuste dichiarazioni sulle soluzioni politiche, quando si va a vedere sul terreno, si vede che l’unica cosa che opera è la dimensione militare mentre la dimensione politica è assolutamente inefficace.
Credo, però, che non ci si possa rassegnare all’inevitabilità delle armi e, quindi, è giusto lavorare per creare le condizioni perché ci possa essere una soluzione politica.
Il sostegno dell’Italia al Governo Serraj è coerente con la scelta che hanno fatto ONU e Unione Europea.
Quando è utile non rinunciamo a interloquire anche con Haftar ma questo non equivale ad un’equidistanza.
La posizione italiana è di sostegno al Governo Serraj, anche se qualche atto un po’ improvvido dei mesi scorsi può aver dato l’idea di una nostra equidistanza che invece non c’è e non può esserci.
Il sostegno al Governo Serraj, ovviamente, è finalizzato a creare le condizioni affinché cessino le operazioni militari e si apra finalmente un tavolo negoziale per una pace.
Nel sostenere il Governo Serraj, l’Italia è impegnata su più fronti: sull’assistenza sanitaria con l’ospedale di Misurata, sull’opera di bonifica per rendere meno drammatica la vita della popolazione civile e parte proprio in queste settimane un programma di sminamento degli edifici civili che sono stati minati e che sono un pericolo drammatico per chi ci vive e per chi si trova in prossimità.
La popolazione è esposta a rischi colossali e il programma di sminamento ha come obiettivo quello di restituire ad una popolazione civile già molto martoriata almeno condizioni minime di sicurezza.
Ci sono aiuti economici che stiamo dando al Governo Serraj per favorire qualche forma di sviluppo economico che consenta alla Libia di non vivere soltanto di aiuti esterni.
Infine c’è il sostegno alla Guardia Costiera libica che è oggetto di molte polemiche perché gli esponenti della Guardia Costiera libica sono fortemente legati ai trafficanti di migranti, come sappiamo sulla base di informazioni e anche di prove che abbiamo avuto.
Noi abbiamo posto ripetutamente e continuiamo a porre al Governo Serraj la necessità di una bonifica della Guardia Costiera e di rompere i legami con i trafficanti ma la cosa non è semplice.
La proposta di andare via da parte di chi chiede perché assistiamo la Guardia Costiera libica, cioè mettiamo a disposizione strumenti operativi (scafi, materiale marittimo, materiali di monitoraggio del mare) non è risolutiva del problema.
Anche se andassimo via, la situazione non cambierebbe, anzi, probabilmente sarebbe ancora peggio perché, finché l’assistenza alla Guardia Costiera la facciamo noi, abbiamo almeno la possibilità di insistere a chiedere che venga bonificata rispetto ai legami che può avere con i trafficanti mentre se andiamo via, la Guardia Costiera libica diventa semplicemente la longa mano dei trafficanti e la situazione peggiora.
In questo caso, dunque, bisogna scegliere il meno peggio. Il bene non c’è.
Il meno peggio è quello di evitare che i trafficanti abbiano in mano la Guardia Costiera, come rischierebbe di succedere se andassimo via.
Abbiamo posto il problema più volte e stiamo lavorando per questo e per lo svuotamento dei campi di contenimento dei migranti clandestini, attivando i corridoi umanitari in primo luogo per donne e bambini, cioè la popolazione più fragile che si trova lì.
È importante che il Governo italiano attivi dei corridoi umanitari ma è altrettanto importante che questa attività sia sostenuta dall’Europa perché se dovessimo essere soltanto noi i destinatari dello svuotamento dei campi questo aprirebbe altri fronti di problemi nella nostra politica interna.
Ci stiamo battendo, quindi, non solo per convincere l’autorità libica a consentire lo svuotamento dei campi attraverso corridoi umanitari ma anche per convincere l’Unione Europea a farsi carico dell’accoglienza di chi proviene dai campi.
Sulla questione della Guardia Costiera si sta lavorando anche su altri fonti. Per garantire l’applicazione dell’embargo sulle armi, l’Unione Europea ha varato la missione Irini - che ha sostituito la vecchia missione Sophia - e tra i compiti c’è anche quello dell’assistenza alla Guardia Costiera quando sarà a regime.
Noi stiamo lavorando al trasferimento dell’assistenza alla Guardia Costiera da un rapporto bilaterale tra Italia e Libia ad un rapporto multilaterale tra Libia e Unione Europea attraverso la missione Irini.

Sen. Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato:
Fassino ha detto ciò che condivido anch’io.
Siamo tutti d’accordo sul fatto che bisogna riattivare i corridoi umanitari e operare per smontare i campi di prigionia.
Fassino, però, ha anche fatto un’obiezione che merita risposta: non è che non finanziando la guarda costiera libica o andando via dalla Libia e allentando il sostegno che stiamo dando al Governo di Tripoli migliorino le condizioni di quelle persone a cui oggi si negano i diritti.
I diritti umani sono fondamentali per tutti noi.
So che comunque la posizione delle Acli è molto più complessa di quella che si può riassumere.

Paolo Petracca (Presidente Provinciale ACLI Milano Monza e Brianza):
Penso che Fassino sia una delle persone più competenti in Italia in tema di politica estera, anche per una sua storia pluriennale.
Secondo me, la ricostruzione geopolitica che Fassino ha fatto è estremamente corretta.
Quello che lascia insoddisfatte le forze della società civile che da alcuni decenni animano il movimento per la pace e che sono anche molto impegnate in prima linea nel salvare le vite nel Mediterraneo non è tanto il fatto che il Governo o il Parlamento abbiano esercitato il principio dell’etica della responsabilità di fronte ad una scadenza di fronte alla quale avrebbero dovuto dire sì o no. L’insoddisfazione molto forte è dovuta a ciò che non si è riusciti a fare in questi anni.
La situazione che ha raccontato Fassino non si è creata nell’ultimo mese e non ci siamo trovati di fronte ad un’emergenza. Che il Mediterraneo sia diventata una zona di enorme instabilità politica è sotto gli occhi di tutti. Si sa che i rapporti tra Europa e Africa e il tema delle migrazioni e dell’impatto demografico che si avrà nei prossimi anni, ma anche il tema della cooperazione internazionale non hanno fatto passi avanti che sarebbero stati necessari per non trovarci in questa situazione di emergenza e di debolezza. Queste sono le obiezioni di fondo.
Tra le persone ragionevoli che studiano e che conoscono le cose penso che nessuno possa dire che noi siamo quelli che dicono che tutelano i diritti umani dei 600mila sfollati e rifugiati che ci sono nei campi in Libia mentre chi vota il rifinanziamento delle missioni no. Questo lo lasciamo a “non dibattiti” in altri luoghi.
È del tutto evidente, però, che noi in questi quattro anni non abbiamo fatto dei grossi passi in avanti.
I corridoi umanitari, ad esempio, sono un tema che il mio mondo e il mio pezzo della società civile mettono in pratica direttamente. Il nostro modo di porci è quello di provare ad indicare la strada dando anche l’esempio, quindi, non proponiamo i corridoi umanitari senza provare a farli.
Le nostre organizzazioni, comprese le Acli, si sono fatte carico anche di un pezzettino di questa sperimentazione per mostrare che questo è possibile. Lo ha fatto pure il Santo Padre direttamente a Lesbo.
Il tema è che questa vicenda dei corridoi umanitari, come giustamente diceva Fassino, è una questione di cui bisogna fare in modo che l’Unione Europea se ne prenda carico. È l’Italia, però, che ha l’obbligo di porre tutto il proprio peso politico affinché questa cosa succeda. Noi veniamo da giorni in cui il Governo italiano e il nostro Premier sono riusciti a farsi valere e a far sentire la propria voce nella vicenda molto importante per la crisi mondiale che stiamo vivendo che non è più solo sanitaria ma è anche economica. In questi anni, invece, non siamo riusciti indubbiamente a creare dentro l’Unione Europea la convinzione che questi corridoi umanitari fossero necessari e divenissero un programma europeo massivo.
Probabilmente, anche solo minacciare di non continuare i programmi che stiamo portando avanti, verso l’Unione Europea sarebbe importante affinché si sveglino.
Non siedo in Parlamento, rappresento un’organizzazione della società civile e conosco la differenza tra l’etica delle responsabilità di chi deve poi assumere delle decisioni e l’etica della profezia. L’etica della profezia nella società civile serve per indicare una strada. Non possiamo non premere affinché la politica estera del nostro Paese e del nostro continente muti radicalmente, mettendo la questione dei diritti umani al centro, così come la questione della redistribuzione della ricchezza e cercando di smascherare il pregiudizio che c’è sulle migrazioni, quando invece l’Europa ha fame di migranti, anche solo per ragioni demografiche e al posto di far soffrire le persone sarebbe utile riuscire a trovare un sistema diverso.
Le persone che poi passano attraverso le torture dei lager libici e non sempre riescono ad arrivare nel nostro Paese spendono migliaia di euro per fare questo. Vuol dire che se noi facessimo una politica estera come Unione Europea di cooperazione internazionale come si deve, probabilmente riusciremmo a far arrivare da noi queste persone inserendole in contesti virtuosi “allo stesso prezzo”. Di questo non si parla mai.
Sono stato in Svezia, l’anno prima delle elezioni che hanno poi riconfermato il Governo di centrosinistra-ambientalista che reggeva il Paese, e ho visto che su 9 milioni di abitanti hanno fatto entrare 600mila persone con gli accordi bilaterali della cooperazione internazionale, soprattutto dall’Africa, imparando la lingua già nei Paesi di origine e arrivando a soddisfare il fabbisogno delle industrie che hanno necessità di lavoratori e trovando addirittura delle soluzioni abitative precedentemente in una regione che nella sua concentrazione al Sud del Paese è grande come la Lombardia.
È possibile affrontare tutte queste dinamiche, da quella migratoria a quella della cooperazione internazionale, nel rispetto dei diritti umani, in un’altra maniera. Noi siamo qui a dimostrarlo. Ci sono degli esempi. Dobbiamo avere la forza come Paese di far diventare questa una politica europea e lo possiamo fare perché siamo quelli che pagano il prezzo più alto.
A me non pare che si sia riusciti a far capire questa emergenza, dal Ministro Di Maio ai Ministri degli ultimi anni, nonostante l’impegno dei nostri Governi prima di tutto all’interno dell’Unione Europea.
Noi, invece, chiediamo che questo venga fatto e che quando ci sono occasioni determinanti come quella del voto in Parlamento, la si usi come fanno tanti altri Paesi dell’Unione anche come un’arma di pressione.
Non è, quindi, una posizione in cui si dice che i lager libici li sostiene il Partito Democratico. Questa è una follia.
Lo stesso disastro l’Unione Europea l’ha fatto con l’accordo con la Turchia rispetto ai profughi della guerra in Siria.
Non possiamo pensare di continuare a tamponare questi fenomeni facendo accordi con autorità fragilissime, dove in alcuni casi c’è anche una provata connivenza tra la guardia costiera libica e i torturatori.
È evidente che non si può continuare così e questo morde la coscienza di ogni persona civile e dobbiamo fare di tutto per fare in modo che questo non accada oggi o non accada domani ma ci vuole una tensione e una volontà politica e una spinta tale affinché queste cose cambino, che è quella che dobbiamo dare dal basso come società.
La gente che viene torturata o che muore ci chiama a una parte di corresponsabilità.
Ce lo ricordano un eurodeputato del PD che viene dall’esperienza della Comunità di Sant’Egidio e le parole di Andrea Riccardi, che è stato anche Ministro della Cooperazione Internazionale in Governi precedenti e non un semplice militante della società civile. Il dottor Bartolo, che è stato medico a Lampedusa, racconta storie incredibili. Noi vogliamo che quelle storie e quelle sofferenze, che possono essere evitate con l’intelligenza della politica italiana, europea e africana, non succedano più.
È chiaro che lo scacchiere è complicatissimo ma noi dobbiamo avere una grande offensiva da parte della politica, non soltanto su questa questione ma con un progetto dell’Italia e dell’Europa verso l’Africa e verso il Mediterraneo che, se non lo facciamo in modo lungimirante, ne pagheremo le conseguenze sia in termini di vite umane ma anche in termini di consenso interno, perché poi i populismi che sono un avversario temibilissimo da sconfiggere nelle nostre società, su queste semplificazioni ci giocano e lucrano politicamente. Abbiamo bisogno di un cambio di passo gigantesco nel modo di intendere i rapporti non solo con la Libia ma anche con l’Africa e con il Mediterraneo e abbiamo bisogno di tantissime energie.
Capisco che nelle crisi la gente guarda ai propri ombelichi ma a furia di guardare ai propri ombelichi siamo circondati da una situazione di instabilità politica enorme sulla riva Sud del Mediterraneo e in Africa e prima o poi avrà conseguenze molto più ampie di ciò che può controllare la Guardia Costiera libica.

Sen. Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato:
È importante capire cosa sta facendo la missione italiana in Libia che abbiamo rifinanziato, qual è la sua funzione, quali sono le regole di ingaggio e a cosa serve perché anche su questo credo che ci voglia un po’ più di chiarezza rispetto alla semplificazione secondo cui servirebbe a impedire le partenze degli immigrati, dato che non è così.

Roberta Pinotti (Segreteria Nazionale PD e membro della Delegazione Parlamentare italiana all’Assemblea Parlamentare della NATO):
Queste iniziative servono per evitare di andare su scontri feroci e ideologici che poi non portano a nessun passo avanti rispetto alle proprie posizioni.
Le questioni di cui stiamo parlando sono molto complicate e molto difficili.
Il quadro che ha fatto Piero Fassino è perfetto dal punto di vista della situazione geopolitica.
Ho ascoltato con estrema attenzione anche tutto ciò che è stato detto da Petracca perché sono stimoli, considerazioni e problematiche che credo dobbiamo assolutamente tenere presenti e che toccano ciascuno di noi perché ci interpellano.
Quando ho cominciato ad occuparmi della questione libica eravamo nel 2014; quando sono diventata Ministro della Difesa ho cominciato a osservare con più attenzione e preoccupazione quello che stava avvenendo in Libia.
Eravamo nel dopo-Gheddafi. Per una certa fase e per un certo periodo c’è stato comunque un Governo che si basava sul Parlamento di Tobruk e che veniva considerato il Governo ufficiale. Era in ogni caso un Governo appoggiato da quel Parlamento. Le tensioni varie che c’erano nel mondo politico e nella società libica hanno portato ad una serie di contrapposizioni e alla fine sono nati due Parlamenti.
La divisione tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che fa parte della storia della Libia e che ancora oggi è molto forte, si veniva a contrapporre anche plasticamente con il fatto che comunque due diventavano i possibili interlocutori. Si erano insediati due Parlamenti in due realtà diverse.
Qui vorrei inserire un elemento che forse non abbiamo adeguatamente toccato ma che dà l’idea della complessità.
Quando Paolo Petracca parlava della problematica o della debolezza che a volte si ha nelle questioni internazionali, non abbiamo citato l’ONU.
Eppure l’elemento incredibile è che, in questi anni, ho visto passare tre inviati dell’ONU sulla Libia, anche l’ultimo si è dimesso senza essere riuscito ad arrivare ad un compimento. La missione di questi inviati era quella di riuscire a risolvere le tensioni interne per arrivare alle elezioni e arrivare ad una situazione comunque di Governo riconosciuto della Libia.
Stiamo parlando, quindi, di molti anni in cui l’ONU incarica delle personalità che ritiene che possano essere all’altezza di gestire queste situazioni ma poi queste personalità finiscono i loro anni di mandato senza avere concluso nulla rispetto a ciò che era il loro obiettivo.
Questo ci porta a fare due riflessioni, la prima delle quali è che, nel disordine attuale del mondo, c’è anche la debolezza che l’ONU ha nella possibilità di intervenire, alla base di cui ci sono molte ragioni (non si parla di più di riformare l’ONU ma se ne è parlato per molto tempo senza riuscire a farla) e dall’altro lato c’è il fatto che la situazione in Libia è molto complicata, altrimenti una pista di lavoro per uscire fuori dal caos la si sarebbe trovata.
Tornando al tema, ad un certo punto la comunità internazionale ha riconosciuto Serraj come Presidente legittimo e, quindi, è diventato l’interlocutore con cui parlare.
L’Italia è sempre stata dentro a quelli che sono gli ambiti di legittimità internazionali e, quindi, l’interlocutore con cui parlare è stato Serraj, pur non smettendo di parlare anche con altri interlocutori che erano comunque importanti, accolti anche con un protagonismo che ha portato anche a situazioni di grave difficoltà, se pensiamo soprattutto all’ultima fase di Haftar. In ogni caso, abbiamo parlato con tutti gli interlocutori per riuscire ad arrivare ad una sintesi.
L’Italia veniva comunque accettata e non è un caso se è stata l’Italia a riaprire per prima l’ambasciata a Tripoli. Questo è il segno con cui anche i libici ci hanno detto che riconoscevano la possibilità di interloquire con l’Italia più che con altri attori.
In quegli anni di grandissima confusione e grandissime difficoltà anche per la popolazione libica, non è che l’Italia non abbia mai provato a sottoporre all’Europa con forza e determinazione il fatto di doversi occupare della questione libica ma, negli anni che abbiamo vissuto, quasi tutti i Paesi non hanno voluto saperne, eccetto Angela Merkel, che ad un certo punto alzato un po’ la testa dai problemi territoriali specifici e ha guardato un po’ più lontano. Altrimenti la preoccupazione del tema immigrazione con le possibili ripercussioni negative sul consenso elettorale di chi in quel momento governava i Paesi era diventato un blocco per cui qualsiasi proposta venisse fatta, se comunque conteneva l’idea di doversi occupare insieme di questo tema perché l’Europa non può pensare di non occuparsene insieme, iniziava un blocco.
Questo è avvenuto non perché l’Italia non ha provato con forza a porre il tema sempre e costantemente ma perché sembrava di parlare con sordi. Appena si inseriva il tema della ricollocazione dei migranti o di politiche condivise sull’immigrazione era come se si chiudessero tutte le orecchie e qualsiasi possibilità di comunicazione.
L’Europa ha dato un primo piccolo segnale che, però non riguardava la redistribuzione, con una missione europea che si chiamava Sophia e che era anche di soccorso in mare ma che aveva come obiettivo anche la formazione della Guardia Costiera libica.
È nata, quindi, una missione europea dove l’idea non era che la Guardia Costiera libica dovesse bloccare i migranti ma che quando si deve ricostruire un’autorità statuale, formare le forze armate e le capacità di controllo del territorio fanno parte degli elementi di cui ci si deve occupare.
Ero anche stata insieme all’allora Alto Rappresentante Mogherini alla fine di uno di questi corsi di formazione che venivano fatti da militari europei, tra cui anche molti italiani; la nave di comando era italiana ed era una formazione che riguardava tutti i trattati internazionali che sono alla base del modo di muoversi dei militari italiani.
Era, quindi, una formazione mirata a creare una cultura della legalità e dell’attenzione anche ai diritti umani in persone che comunque erano in una situazione molto confusa. In Libia, quando si parla di Guardia Costiera, non dobbiamo immaginare la nostra Guardia Costiera: una parte dipende dalla Difesa, una parte dagli Interni, altre da autonomie locali. La situazione, quindi, era molto confusa e anche la scelta di chi formare era complessa perché si cercava un’interlocuzione seria anche per non avere tra coloro che partecipavano alla formazione e su cui c’era anche un investimento dell’Europa e dell’Italia persone che potessero poi essere miliziani che si erano macchiati di azioni delittuose.
Era una situazione delicata ma c’erano delle indicazioni per fare in modo che nelle persone da formare ci fosse un’attenzione da parte dei nostri interlocutori libici.
Questo con tutte le difficoltà legate a com’era la situazione della Libia.
Racconto questo per dire che c’è stato un lavoro, che è stato fatto inizialmente e prioritariamente con l’Europa ma dove l’Italia è sempre stata presente e protagonista.
Dal punto di vista della sicurezza, guardando anche alla difesa del Paese, la Libia non l’abbiamo tenuta presente soltanto con particolare attenzione perché è il cuore del Mediterraneo ed è di fronte a noi.
Il fatto che la Libia sia di fronte a noi, oggi si ripercuote sul tema delle politiche migratorie ma non è solo questo.
C’è proprio un tema di sicurezza generale. Non va dimenticato che in quegli anni c’era l’ISIS, che è stato proclamato prima in Iraq e in Siria ma focolai molto importanti dell’ISIS ci sono anche in Libia, in particolare a Derna e a Sirte, quindi, il fatto di aiutare a stabilizzare la Libia, in quel momento, era anche un modo per non far diventare la Libia un nuovo territorio dei terroristi che avrebbero potuto organizzare uno Stato di fronte all’Italia.
C’era, quindi, anche tutta questa questione legata agli elementi della sicurezza.
Questo è anche il motivo per cui, dopo Sophia, è nata la prima missione militare italiana che ha portato un ospedale militare a Misurata. L’ospedale viene fatto proprio su richiesta della Libia e di Serraj perché nella battaglia che era stata portata avanti contro i miliziani terroristi dell’ISIS, che stavano combattendo per riuscire a dominare sui territori, c’erano stati moltissimi feriti, oltre che molti morti. C’era, quindi, stato richiesto un sostegno.
L’Italia è stata la prima nazione a entrare con dei propri militari ma non in assetto di azione di guerra ma con una capacità che è quella dell’ospedale militare.
Perché militari e non civili? Perché in quel momento la sicurezza in Libia era assolutamente precaria e c’era una situazione di grandissima difficoltà, come anche adesso, e quindi l’ospedale doveva essere presidiato da forze di sicurezza e, quindi, i militari insieme a medici, infermieri e operatori sanitari hanno inviato anche persone che dovevano fare in modo che ci fosse la sicurezza.
Arriviamo, quindi, alla missione che oggi è ancora in discussione.
Questa missione nasce dopo il Memorandum del 2017, firmato da Serraj e Gentiloni e che viene riconosciuto come base importante di lavoro dall’Europa nel vertice di Malta di febbraio.
In questo Memorandum si parla anche di sostenere la ricostituzione della Libia e, quindi, le capacità della Libia a tornare in grado di gestire la parte sana della sicurezza in mare.
Dentro a questo Memorandum si parla di inserire l’UNHCR e si parla anche del problema, non ancora messo a fuoco come oggi, di quello che sono i migranti che dall’Africa e da molti Paesi e che sono arrivati in Libia e si sa che sono tenuti in condizioni assolutamente disumane.
Non tutti gli orrori erano ancora venuti alla luce ma in ogni caso che le condizioni fossero terribili e che ci fosse un’economia in Libia che si era creata proprio sullo sfruttamento di queste persone era già evidente.
C’era tutta una parte di economia che sosteneva questi trafficanti di essere umani in una situazione diffusa e complicata.
Anche nella missione si parla di finanziamento alla Guardia Costiera libica.
L’elemento di maggiorazione dei costi della missione che non riguarda i militari perché è una missione della Guardia di Finanza - e, quindi, non dipende dal Ministero della Difesa - non è un finanziamento alla Guardia Costiera libica: c’è un costo maggiore perché è un costo della Guardia di Finanza che interviene in quel luogo per fare questo tipo di addestramento.
Anche nella discussione in cui sono emersi i punti di vista diversi che ci sono su questo, è bene che non guardiamo la punta dell’iceberg ma qual è l’elemento effettivamente da sradicare.
Il problema non è se viene o meno formata la Guardia Costiera libica, anzi, per come ho visto che i nostri militari formano le persone, più la Guardia Costiera viene formata più si evita il fatto che ci siano delle atrocità, come quelle che abbiamo visto.
Il tema vero su cui dobbiamo avere un progetto è per queste persone che sono nei lager, che vengono torturate, che hanno avuto anni di disavventure irraccontabili: noi possiamo continuare ad accettare che provino a partire, poi vengano riportate indietro e rientrino nel girone dell’inferno? No, non possiamo continuare ad accettarlo ma non basta dire che se l’Italia smette di formare la Guardia Costiera libica questo non succede. Questa situazione c’era prima delle missioni e purtroppo ha continuato ad esserci.
È vero che in tanti anni non si è riusciti a fare passi in avanti però è anche vero che sono tempi lunghi: quanto ci abbiamo messo nei Balcani a riportare una situazione di normalità dove ancora ci sono delle tensioni.
Purtroppo quando si rompono le situazioni avviene in tempi rapidissimi ma ricostruirle è qualcosa di molto più complesso.
Non è, quindi, una mancanza di volontà. Non è un non aver voluto vedere i problemi.
Sono d’accordo con Petracca sul fatto che i campi vanno svuotati o portando le persone che ne hanno diritto alla status di rifugiati nei Paesi europei, non solo in Italia - quindi dovrebbe essere un progetto che coinvolge l’Europa - oppure immaginando che molti possano anche tornare al loro Paese.
Durante l’ultima fase del Governo Gentiloni, con il Ministro Minniti che si è occupato di questo, sono stati organizzati dei corridoi umanitari da Sant’Egidio, dalla CEI, dalle Acli e da altri che avevano dato la dimostrazione che questo si può fare, trovando nuclei familiari che accoglievano queste persone.
Questo dovrebbe essere un grande progetto che l’Europa fa proprio.
Il fatto che oggi in Libia stiano dominando dal punto di vista dell’interlocuzione la Turchia e la Russia deve preoccupare l’Italia ma deve preoccupare anche l’Europa tutta.
Fino ad ora non si è riusciti, non perché l’Italia non abbia cercato questa azione in Europa.
Ho comunque speranza che ci possa essere un cambio di passo. L’Europa, ad esempio, sulla crisi del post-covid, ha saputo alzare lo sguardo più in alto. Certo può essere più semplice pensare di dare una mano economica piuttosto che occuparsi di immigrazione perché, malauguratamente, viene considerato un tema che chi lo tocca perde consenso.
Come membro del PD che appoggia il Governo in carica, ritengo che dobbiamo avere un grande progetto sull’immigrazione che tiene conto dell’esempio che faceva Petracca su ciò che avviene in Svezia.
Adesso c’è un tema emergenziale che sono le persone che stanno in Libia, che hanno subito torture e devono essere liberate da questa situazione ma poi c’è tutta la questione del come gestiamo il grande tema dell’immigrazione. Su questo ci siamo fermati, dallo Ius Culturae ai Decreti Sicurezza che dobbiamo modificare, al fatto che bisogna immaginare dei Decreti flussi o comunque dei numeri ben diversi da quelli che hanno visto i Decreti flussi fino ad oggi, fino a pensare che dobbiamo rivedere completamente la Legge Bossi-Fini, che per me è una legge sbagliata ma soprattutto è completamente inadatta a gestire il fenomeno per come oggi deve essere gestito.
Non mi stupisco che le persone che hanno a cuore i diritti umani e le politiche per la pace abbiano con forza sottolineato il fatto che questo scandalo della Libia per quello che sta avvenendo ora debba finire e credo che ci sia da porci il problema di come ce ne occupiamo. Penso che, su questo l’Italia potrebbe farsi portatrice in Europa di un grande progetto che deve coinvolgere l’Europa per immaginare intanto di intervenire nello svuotare i campi sull’emergenza ma poi non basta.
Bisogna pensare ad un grande progetto non solo per la Libia ma anche per l’Africa. L’Africa è troppo grande perché sia solo l’Italia ad occuparsene, forse anche troppo grande perché se ne occupi solo l’Europa ma certamente l’Unione Europea non può non guardare a quello che sta avvenendo in termini di incremento demografico e di problematiche, immaginando di gestirle senza mettere la testa sotto la sabbia. Ci vogliono, però, statisti e non soltanto governanti che guardano a quello che può essere l’esito delle elezioni di poche settimane dopo.


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