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Nulla sarà più come prima: ripartire, reinventare, ricostruire - intervento di Piero Fassino su HuffPost

06 Maggio 2020

Mentre si sta combattendo ancora per salvare vite e contrastare il contagio, in ogni nazione ci si sta applicando a strategie e azioni per “ripartire”, uscendo dal lockdown e mettendo in moto tutte le attività paralizzate da coronavirus. Ed è un leitmotiv affermare che “nulla sarà come prima”. Aldilà del carattere scaramantico di queste parole (se nulla sarà più come prima, si spera che anche coronavirus non compaia più) non è inutile chiedersi che cosa dovrà cambiare.

 

Intanto dovrà cambiare la insufficiente consapevolezza di vivere in un mondo globale. Quando coronavirus scoppiò in Cina il mondo intero lo considerò un fatto cinese. Quando l’epidemia arrivò in Italia, in Europa lo si considerò un fenomeno italiano. Quando l’epidemia si diffuse in tutte Europa, Trump la considerò una questione europea.

 

Atteggiamento analogo si manifesta di fronte a guerre e conflitti: le guerre che sconvolgono la Libia, la Siria, l’Irak sono alle porte di casa, eppure ce ne sentiamo estranei, liquidandole come “conflitti locali” quando invece ogni guerra – ovunque avvenga – ci riguarda e produce conseguenze che investono la nostra vita e la nostra sicurezza.

 

Insomma – ecco un primo essenziale cambiamento – vivere in un mondo globale richiede che si sia consapevoli di essere cittadini del mondo e non soltanto del proprio Paese. E trarne le conseguenze. E una prima conseguenza è superare il carattere anarchico della globalizzazione, liberandosi di due atteggiamenti estremi, di chi pretenderebbe di bloccare la globalizzazione e di chi la abbraccia acriticamente. La globalizzazione c’è e come tutti i fenomeni non è neutra, offre opportunità e espone a rischi. E quando, come oggi, è senza guida e affidata alle sole leggi della competizione economica, i rischi possono essere alti. Proprio coronavirus ci ha dimostrato che un mondo globale ha bisogno di una guida che non può essere affidata alla sola somma delle politiche nazionali.

 

Viviamo in un mondo in cui tutto ha dimensione globale: produzione e investimenti, scambi commerciali , trasferimento delle tecnologie, circolazione delle persone, comunicazione. Ma in un aspetto strategico il mondo non è globale: nella sovranità. E se certo sarebbe del tutto velleitario proporre oggi una sovranità globale in un mondo di 5 continenti e 200 nazioni – per di più in tempo di pulsioni sovraniste e nostalgie nazionaliste – è altrettanto vero che sedi e luoghi di governance globale appaiono sempre più necessari.

 

All’indomani della seconda guerra mondiale, per evitare che il mondo potesse ripiombare nelle spire devastanti del nazionalismo, la comunità internazionale si doto’ di istituzioni – dall’ONU all’OMS, dal WTO all’ILO, dall’UNESCO all’FMI – finalizzate a gestire dinamiche globali. Se questa esigenza era avvertita settanta anni fa – quando il termine globalizzazione neanche esisteva – a maggior ragione oggi è una stringente necessità. Peraltro in questi settanta anni in ogni continente sono cresciute istituzioni di cooperazione regionale, così come sono sorte forme di cooperazione multilaterale su issues globali. Per affrontare il climate change la comunità internazionale si è dotata prima del Protocollo di Kyoto e poi degli Accordi di Parigi. E per perseguire genocidi e gravi reati contro l’umanità si è istituito il Tribunale Penale Internazionale.

 

Tuttavia le istituzioni sovranazionali spesso non sono in grado di assolvere alle loro finalità. E questo perché gli Stati nazionali, pur essendo soci fondatori di quelle istituzioni, non sono disposti a riconoscere loro risorse, poteri e strumenti adeguati. Nei giorni più difficili del coronavirus il Presidente Trump non ha trovato di meglio che annunciare la sospensione del pagamento delle quote di finanziamento degli Stati Uniti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (dopo aver fatto la stessa cosa un anno fa all’Unesco). Una decisione di segno opposto a quel che invece si dovrebbe fare, quando oggi servirebbe rafforzare le istituzioni sovranazionali – sia regionali, sia globali – e metterle nelle condizioni di esercitare davvero funzioni di governance su questioni che nessuna nazione da sola è in grado di gestire adeguatamente. Così come coronavirus ha reso evidente la necessità di ricostruire un sistema di relazioni multilaterali, il solo capace di evitare che il mondo sia preda di conflitti nazionalistici, guerre commerciali, fanatismi religiosi.

 

Questo ragionamento vale tanto più in Europa, se non altro per un fatto facilmente constatabile: nessun Paese europeo ha le dimensioni demografiche ed economiche per affrontare da solo sfide globali. Proprio coronavirus lo ha reso evidente. Dopo alcune incertezze e sottovalutazioni iniziali, ci si è ben presto resi conto che senza una strategia europea nessun Paese sarebbe stato in grado di contrastare e superare l’epidemia. E oggi i provvedimenti assunti da UE, BCE, BEI rappresentano il principale e concreto sostegno su cui le nazioni europee possono fare leva. E così dopo anni nei quali l’Unione Europea è stata rappresentata come un peso, un ostacolo, un nemico, oggi l’epidemia obbliga tutti a riconoscerne l’utilità e la necessità. E allora – ecco un’altra cosa che dovrà cambiare – liberiamoci dei troppi pregiudizi e delle troppe miopie che hanno frenato la costruzione di politiche europee e riprendiamo con lena il cammino della integrazione europea con la consapevolezza che a problemi comuni servono soluzioni comuni e istituzioni politiche comuni.

 

Da qui discende, a catena, la necessità di altri cambiamenti: ridisegnare il profilo dello sviluppo, costruendo un nuovo equilibrio tra produzione di beni di consumo individuali e promozione di beni e servizi di interesse generale e collettivo, in un rapporto uomo-natura che non disperda le ricchezze del pianeta; lasciarci alle spalle l’idea che la spesa sociale sia improduttiva e sacrificabile ad astratti equilibri di bilancio, quando invece assicurare consistenti risorse a sanità, formazione, ricerca, servizi alla persona e alle famiglie, è la condizione per garantire ai cittadini qualità di vita, prosperità e certezze; ridisegnare un inedito rapporto tra lavoro e stili di vita, riorganizzando tempi, forme, modalità del lavoro, che sempre di più richiederanno investimenti nella formazione, nell’innovazione tecnologica, nella sicurezza; superare la convinzione che la modernità si affermi solo con megalopoli e urbanizzazioni esasperate – la Cina ne insegna gli enormi rischi – per restituire invece valore a ogni territorio, riorganizzandone spazi e usi e recuperando la centralità della vita di comunità. E di fronte a un’epidemia che non distingue colore della pelle, sesso, religione, cultura dovremo liberarci di paure, pregiudizi e ostilità verso ciò che è diverso dalla nostra quotidianità, riconoscendo a ogni persona identità e dignità di vita.

Cambiamenti che tutti richiedono salto di qualità culturale, assunzione di responsabilità, volontà di rimettersi in discussione, determinazione nel perseguire strade nuove e inesplorate. Solo così “nulla sarà come prima”, evitando di essere soltanto una felice espressione retorica.


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