Stiamo vivendo una crisi inedita, dalle connotazioni sconosciute, incerta nella durata, devastante nelle conseguenze economiche.
Immersi nell’emergenza sanitaria attendiamo di superare i picchi, intravvedere una sicura discesa del contagio ed avviarci verso la cosiddetta fase 2. Per intanto constatiamo che - al di là dell’eroismo del personale sanitario e delle disfunzioni organizzative (mascherine, respiratori, ecc) - la “migliore sanità del mondo” dovrà misurarsi con la esigenza di ritrovare un nuovo baricentro tra pubblico e privato, a favore del primo; recuperare una maggiore dimensione preospedaliera e definire un più efficace coordinamento generale tra lo Stato e le Regioni.
Ma nell’emergenza sanitaria è esplosa anche quella economica, che stiamo affrontando con un esborso di sostegni sociali e finanziari che non ha precedenti; ma che pone già, ad appena un mese dal primo decreto cura Italia ed in previsione di quello cosiddetto di “Aprile”, il problema della coerenza tra le scelte dell’emergenza e la prospettiva di uscita sulla quale si sta concentrando la discussione.
Ma, proprio questa tensione a ripartire ci obbliga a considerare, con grande attenzione, le conseguenze di medio periodo, di carattere economico sociale, successive sia alla fase di crisi acuta che stiamo vivendo, sia alle restrizioni, per quanto parziali, che accompagneranno la ripartenza.
Dovremo affrontare quattro conseguenze, sicuramente di lungo periodo e, per certi versi, strutturali:
1) un impoverimento generale della popolazione.
Le chiusure di stabilimenti, di negozi, ecc. comportano una caduta di mercato che si trascinerà oltre la emergenza, con una duplice conseguenza:
- una caduta generale del reddito che intacca le riserve accumulate e aumenterà l’indebitamento;
- la formazione di un “popolo” di “nuova povertà” che coinvolgerà anche strati diffusi del ceto medio basso.
Gli interventi attuali, giusti, sono un tampone necessario, ma non risolvono il problema, anzi, in alcuni aspetti, involontariamente, lo aggravano. Esempio: più apriamo alla necessità inevitabile di accedere al credito, più creiamo una bolla debitoria che graverà sulla generazione futura; ma è il male minore e bisogna, allora, che la restituzione sia almeno la più lunga possibile per non tagliare le ali alla spinta propulsiva della ripartenza.
Comunque, non tutti (famiglie e imprese) purtroppo reggeranno ai colpi della crisi e alcuni precipiteranno nella povertà o falliranno. Esiste quindi una nuova “questione sociale”. Ci attendono nuove disuguaglianze e nuove povertà, alle quali bisogna reagire con un nuovo welfare, nel quale la solidarietà e la sussidiarietà siano fortemente intrecciate con lo Stato in una visione davvero solidaristica.
2) Una caduta, crisi, trasformazione del sistema produttivo.
Il sistema produttivo andrà verso una auto “selezione della specie” tra chi ha più riserve di patrimonio e liquidità, indipendentemente dai prodotti e dalla qualità? O, non dovremo, al contrario, decidere su quali settori puntare per la ripartenza e il rilancio?.
Personalmente penso che dobbiamo far leva sulle potenzialità strutturali italiane e concentrarci su esse:
- turismo e cultura. È il settore più colpito, ma è anche quello con più potenzialità strutturali. Ci vorrà tempo, ma siamo sempre il paese col 70% del patrimonio artistico mondiale e con una dotazione naturale straordinaria... (“Il più bel paese del mondo!”).
Ma dovrà cambiare l’offerta (più qualità, più sostenibilità). Dobbiamo pensare ora, già per questa estate, a forti incentivi al turismo interno (avremo poca mobilità e pochi ospiti stranieri...).
- siamo ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa e il Made in Italy (con l’agroalimentare al centro) tornerà ad essere il cuore della ripresa dei consumi.
- la logistica: siamo una “diga” naturale nel mediterraneo e porta d’ingresso per l’Europa centrale e dell’Est. Quindi: portualità e trasporti...
In appoggio a questa triplice linea di sviluppo serviranno tanti investimenti pubblici di sostegno diretto e indiretto ai settori che vogliamo rilanciare; avremo bisogno di tanto digitale (dopo questa fase lo Smart working resterà, sia pure in parte... la telemedicina e l’insegnamento a distanza saranno sempre più utilizzati.
Inoltre in queste settimane è in seconda fila il dibattito sui cambiamenti climatici e ambientali. Ma non dimentichiamo che proprio la sostenibilitá sarà, a maggior ragione dopo questa fase drammatica, la chiave di lettura dello sviluppo futuro.
3) Una modifica dei costumi.
Dopo questa “rivoluzione” sconteremo nuove abitudini igieniche: volontarie sul privato o imposte, ad esempio a scuola e nei posti di lavoro. Soprattutto in questi cambierà il concetto stesso di sicurezza (per le fabbriche e i luoghi pubblici è una sfida tutta da inventare: pensiamo alle scuole o agli stadi e agli assembramenti all’ingresso... gli esempi sono numerosi!).
4) Una modifica dei consumi.
dobbiamo sostenere i consumi interni. Ma dobbiamo farci delle domande.
- avremo più “lusso” e voluttuario (per sfuggire alla depressione post guerra) o più essenzialità e sobrietà (in conseguenza dell’impoverimento)?
- Quale sarà il nuovo concetto di benessere?
Serve, dunque, la forza di una risposta “etica” e non solo economica che sostenga una nuova visione sociale.
La spinta, invece, assolutamente ragionevole, potrebbe essere quella di voler “tornare come prima”. Ma poiché non saremo come prima, cerchiamo di essere migliori...
In conclusione: serviranno massicci interventi finanziari e uno straordinario concorso di idee innovative e condivise su una nuova strategia paese e una nuova organizzazione della vita e del lavoro.
Insomma, serve una visione!
Pier Paolo Baretta