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Piero Fassino: la sinistra non abbandona i palestinesi, ma neanche Israele - intervista de l'HuffPost

20 Maggio 2021

Il presidente della Commissione Esteri della Camera dissente dalla "visione unilaterale" di D'Alema, concorda con la linea di Letta. "Giusto criticare Netanyahu, l'Italia può aiutare l’Ue a rapportarsi con Israele non solo con la razionalità cartesiana"

Piero


di Giulia Belardelli

Piero Fassino, deputato Pd e presidente della Commissione Affari esteri e comunitari, non risparmia critiche al governo di Israele nell’aver contribuito a radicalizzare una crisi che allontana la promessa di pace. Ma rifiuta l’approccio “unilaterale” di chi, a sinistra, considera solo la causa palestinese ignorando quella israeliana. In questa intervista ad HuffPost, ragiona sulla spirale del conflitto e sulla necessità di riaprire un percorso negoziale. Spiegando perché l’Italia - proprio grazie alla storia della sua sinistra - può svolgere un ruolo centrale nell’aiutare l’Europa a integrare Cartesio e Freud nel suo rapporto con Israele.

Da più di 10 giorni razzi e missili sono tornati a essere la modalità con cui non si risolve il conflitto israelo-palestinese. Dopo le pressioni americane e internazionali, un cessate il fuoco sembra vicino. Ma cosa lascerà questo ennesimo spargimento di sangue e odio?

“È evidente che la priorità assoluta in queste ore è far tacere le armi, e quindi ottenere che cessi il lancio di razzi sulle città israeliane e cessino le operazioni militari israeliane su Gaza. L’esperienza, però, ci ha insegnato che ottenere il cessate il fuoco senza poi assumere un’iniziativa politica immediata non solo non risolve il problema, ma non impedisce neanche che qualche tempo dopo, la crisi si riproduca. Il tema vero, subito dopo la tregua, è fare in modo che la comunità internazionale esca dalla condizione di passività e attesa di questi anni, e riprenda in mano fortemente questo dossier, mettendo in campo tutte le iniziative utili a riaprire un percorso negoziale”.

Sono passati 28 anni dagli accordi di Oslo. Quelle speranze sono state deluse, alimentando posizioni oltranziste e radicali. L’espressione “due popoli due Stati”, ormai, somiglia più a uno slogan che a un percorso costruito da fatti… Da dove si riparte?

“Riaprire un percorso negoziale significa ripristinare il principio su cui si fondò l’accordo di Oslo e Washington del ’93, vale a dire il reciproco riconoscimento dell’esistenza su quella terra di due diritti ugualmente legittimi. Abbiamo avuto una lunga fase nella vicenda israelo-palestinese – dal 1948 al 1991 – in cui questo reciproco riconoscimento non c’era. La situazione è cambiata dal ’91 con la Conferenza internazionale di Madrid, dove per la prima volta palestinesi e israeliani accettarono di sedersi allo stesso tavolo e riconoscersi. Da lì è partito un percorso che nell’arco di due anni ha portato allo storico accordo tra Rabin e Arafat, un’intesa abbastanza inedita dal punto di vista della cultura diplomatica. In genere, quando si fa un accordo di pace, si tratta - anche duramente - ma dal giorno dopo quello che è stato stabilito si applica, stop. L’accordo di Washington, invece, prevedeva un’applicazione per fasi progressive: nell’arco di 5 anni si sarebbero dovuti affrontare una serie di nodi che, gradualmente, avrebbero dovuto portare all’assetto definitivo dei due Stati. Quei 5 anni, però, si sono dilatati e via via si sono determinate battute d’arresto, ripensamenti, recriminazioni, ostacoli. Nella lentezza e nel trascorrere del tempo, il processo ha perso credibilità, facendo riemergere la messa in discussione della legittimità dei due diritti”.

Cosa ha determinato questo fallimento?

“Nel campo israeliano, con Netanyahu, si è manifestata una linea chiaramente ostile alla creazione di uno Stato palestinese: non dimentichiamo mai che Netanyahu, alla morte di Rabin, disse che con lui moriva anche l’accordo di Washington. Netanyahu è stato conseguente: insediamenti di coloni in Cisgiordania, Gerusalemme capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele, annessione (proposta e per ora sospesa) della Valle del Giordano: sono tutti punti che contraddicono il percorso di costruzione di un accordo due popoli due Stati. Specularmente nel campo palestinese è emerso un radicalismo di Hamas e della Jihad che nega gli accordi di Washington e contesta in radice l’esistenza di Israele. Nello statuto di Hamas, in ben tre articoli, è scritto che finalità dell’organizzazione è la ‘cancellazione di Israele dalla Palestina, terra esclusiva dell’islam’. Per questo dico: l’iniziativa politica della comunità internazionale deve ripristinare il riconoscimento reciproco, altrimenti la soluzione due popoli due Stati rischia di essere una velleità”.

Molti analisti sottolineano come entrambe le parti in campo – il governo di Netanyahu, dall’incerto futuro politico, e Hamas, che da anni dirotta su di sé la lotta palestinese – abbiano chiari interessi nell’alimentare questa spirale di violenza. Allo stesso tempo, la decisione dell’Anp di rimandare le elezioni ha contribuito alla frustrazione della popolazione palestinese. Qual è la sua opinione sulle responsabilità delle leadership?

“Il governo israeliano e Hamas alimentano questa spirale perché entrambi non vogliono l’accordo. Errori ci sono stati anche nella leadership palestinese: a Camp David, nel 2002, l’allora premier israeliano Barak fece un’offerta che Arafat rifiutò; se l’avesse accettata, oggi avremmo lo Stato palestinese. Il limite dell’Anp è avere oggi una leadership non rinnovata da 15 anni. La generazione giovane è più sensibile alle parole d’ordine di Hamas: gli è stato spiegato dai loro padri che ci sarebbe stato uno Stato palestinese che non arriva mai. Allo stesso modo, nella società israeliana di oggi, il consenso all’accordo con i palestinesi c’è ancora, ma è meno forte rispetto ad anni fa: il prevalere del radicalismo nel campo palestinese induce la paura che la Cisgiordania diventi un’altra Gaza”.

A fine aprile è uscito un rapporto di Human Rights Watch intitolato “Soglia varcata: autorità israeliane e crimini di apartheid e persecuzione”. L’organizzazione definisce “apartheid” le politiche discriminatorie praticate dalle autorità israeliane nel territorio che si estende dal Mediterraneo al fiume Giordano. Cosa ne pensa?

“Non condivido quelle definizioni. Credo che con giudizi di questo genere non aiutiamo il processo di pace. Sostenere che c’è l’apartheid, aiuta Hamas, non Abu Mazen, oltre al fatto che si usano parole che rischiano di essere sloganistiche. Israele è un Paese che può avere mille difetti, ma è l’unico Paese democratico in quella regione. Bisogna avere equilibrio e senso delle proporzioni. Il ruolo delle organizzazioni internazionali non è quello di ergersi a tribunale, ma aiutare dei processi politici e contribuire a individuare soluzioni”.

In un’intervista uscita oggi sul Fatto Quotidiano, Massimo D’Alema afferma che la sinistra – italiana ma anche europea – ha tradito e abbandonato i palestinesi. La lotta per i diritti dei palestinesi è ancora una battaglia della sinistra?

“Non condivido questa opinione. La sinistra continua a battersi perché i palestinesi possano avere un loro Stato. D’Alema rischia una lettura unilaterale, sottostimando che accanto alla questione palestinese c’è anche la questione di Israele. Se non si affrontano insieme, non si dà soluzione a nessuna delle due, in particolare a quella meno risolta che è la questione palestinese”.

Qualche giorno fa il segretario Pd Enrico Letta è salito sul palco della Comunità ebraica di Roma con tutta la destra italiana per esprimere solidarietà a Israele. Si è riconosciuto in quell’intervento?

“Assolutamente sì. Il fatto che su quel palco ci sia stato anche Salvini non cambia che fosse necessario esserci. Se Letta non ci fosse andato, si sarebbe detto che il PD ha un pregiudizio verso Israele. Letta ha detto parole chiare: fermare i razzi di Hamas e le operazioni militari israeliane, tornare a negoziare per due popoli, due Stati, ribadendo che in quella terra esistono due diritti entrambi legittimi che vanno entrambi affermati”.

Criticare il governo israeliano è criticare lo Stato di Israele?

“Bisogna distinguere i Paesi dai governi. Criticare Netanyahu non solo è legittimo, è giusto. L’ho fatto nel mio intervento alla Camera e lo sto rifacendo adesso in questa intervista. Ma distinguo un governo da un Paese. Verso Israele, invece, la tendenza è quella di identificare il governo e le sue politiche con lo Stato stesso e tutti quelli che ci abitano. Netanyahu ha radicalizzato questa crisi per impedire la formazione di un governo senza di lui. La crisi è scoppiata mentre il leader di una delle due liste arabe con rappresentanti alla Knesset stava discutendo l’ipotesi di partecipare per la prima volta a un esecutivo di Israele. Un’ipotesi a cui sono ostili i settori più oltranzisti della destra israeliana e Hamas e la Jihad: la radicalizzazione dello scontro da parte di entrambi è anche per impedire quella eventualità”.

Quale può essere il ruolo dell’Italia nella ripresa di un percorso negoziale tra israeliani e palestinesi?

“L’Italia è uno dei pochi Paesi che ha mantenuto sempre relazioni con tutti e due i contendenti, anche nei momenti più difficili. Lo hanno fatto tutte le forze politiche italiane. Anche a sinistra. Ricordo che durante gli anni di più duro scontro, con le guerre del più ‘ 67 e ’ 73, la generalità dei partiti di sinistra nel mondo, soprattutto comunisti, si schierò dalla parte dei palestinesi e degli arabi. L’unico partito comunista che continuò ad avere una posizione “equivicina“ continuando a mantenere relazioni con entrambi i fronti fu il PCI. La sinistra italiana è sempre stata consapevole che bisogna fare i conti con entrambi i protagonisti, e lavorare per costruire un accordo. Penso al rapporto che la sinistra italiana ha avuto sia con Arafat che con Peres. L’Italia ha questo vantaggio: ha sempre lavorato per la pace e deve continuare a farlo”.

Qual è lo spazio di azione dell’Europa?

“Per qualsiasi ebreo l’Europa è un luogo che richiama da un lato la nascita - perché la cultura ebraica è una delle radici dell’identità europea -, dall’altro la morte perché è il luogo dell’Olocausto. Quando l’Europa si riferisce a Israele, bisogna che abbia chiaro che immediatamente scatta in qualsiasi ebreo un rapporto complesso, che deriva da una comune cultura ma anche dal trauma della Shoah. Quando vedo che al Paramento europeo c’è qualcuno che propone il ‘boicottaggio di Israele’, dico che si sta facendo un danno perché il ‘boicottaggio di Israele’ in un cittadino ebreo fa immediatamente scattare un relais che richiama la notte dei Cristalli, l’Olocausto, la persecuzione. Nel rapporto dell’Europa con Israele non si può ragionare solo con la razionalità cartesiana. Bisogna capire la psicologia, i sentimenti, le emozioni, la storia. Questo non è stato fatto e il risultato è che i cittadini israeliani percepiscono l’Europa come contro di loro. Se l’Europa non supera questo limite, rischia di non giocare un ruolo: se devi batterti affinché due parti si riconoscano, anche chi si propone come mediatore deve farsi riconoscere. Ora mi pare che gradualmente l’atteggiamento europeo sia più equilibrato e questo apre all’Europa uno spazio per contribuire alla pace”.

Qual è il ruolo dei Paesi arabi? E cosa pensa dell’opportunità di riattivare l’accordo sul nucleare iraniano, considerando la ferma opposizione di Israele e il sostegno di Teheran ad Hamas e alla Jihad islamica?

“Gli accordi di Abramo sono stati molto importanti: hanno rotto un muro, spingendo alcuni Paesi arabi a riconoscere Israele. Un fatto utile a superare il muro dì incomunicabilità che oggi divide israeliani e palestinesi. I Paesi ostili – Iran, Turchia, Hezbollah libanesi – rimangono un grande problema. La loro posizione di sostegno Hamas e Jihad che non riconosce i diritti di Israele, non può che alimentare conflitto. Ma anche per questo che è importante riprendere i negoziati sul nucleare iraniano: abbiamo bisogno di non radicalizzare il regime di Teheran. Più si isola un Paese con le sanzioni, più lo si radicalizza, dovremmo averlo imparato. E non dimentichiamo che dallo stretto di Hormuz allo stretto di Gibilterra è accesa una sequenza di conflitti, crisi e instabilità. Il nostro compito è ridurre le tensioni, non accrescerle”.


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