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Per questa Italia ferma, impaurita e fragile, il nostro piano “Italia semplice” - Il blog Di Nicola Zingaretti su Huffington Post

27 Novembre 2019

Le tre priorità per far ripartire il Paese: investire sulla qualità dei dipendenti pubblici, ridefinire gli ambiti degli enti locali, riformare la giustizia amministrativa

Alcune settimane fa abbiamo indicato una delle grandi priorità da affrontare subito con coraggio: un piano “Italia semplice”, che disboschi la selva normativa che stritola l’Italia, che acceleri procedure, che accorci e renda certi i tempi per la realizzazione delle opere, sia nell’ambito del privato che in quello pubblico.

Una poderosa azione di semplificazione serve alle imprese, per dare loro slancio e per attrarre investimenti. L’incertezza e la vischiosità delle regole sono infatti uno dei maggiori freni alla crescita del Paese e il principale nemico per chi vuole fare impresa, dal piccolo commerciante alla grande azienda multinazionale. Serve un’Italia più semplice ai cittadini, schiacciatati e vessati da un’infinità di oneri, adempimenti e sempre soli, davanti a difficoltà di accesso alle informazioni e ai servizi pubblici spesso insormontabili. Serve più ordine ed efficacia alle istituzioni e alla pubblica amministrazione, dove esistono oggi innumerevoli sovrapposizioni e un’enorme incertezza su doveri e competenze.

Il dramma dell’Italia fragile che in questi giorni abbiamo davanti agli occhi ci ripropone questa urgenza: impossibile costruire un Paese più sicuro, se non ci sono strumenti che garantiscano di realizzare le opere pubbliche e chiudere i cantieri in tempi umani.

Semplificare vuol dire quindi pensare alla qualità e alla sicurezza delle nostre vite, alla forza e competitività della nostra economia e – non meno importante – alla stessa credibilità dello Stato di fronte ai suoi cittadini. Questo groviglio fatto di competenze e norme è cresciuto per tante ragioni. Uno dei principali problemi è che il nostro Paese è vittima di una degenerazione culturale, per cui si è affermata l’idea che coloro che lavorano nella pubblica amministrazione siano innanzitutto dei ladri, dei truffatori, o – quando va bene – dei pigri e incapaci. Si è proceduto dunque verso deresponsabilizzazione e esternalizzazione. Una visione semplicistica e sbagliata, e lo posso dire con cognizione di causa, dopo anni nella pubblica amministrazione, dove ho trovato, insieme a drammatici limiti, lavoratori capaci e appassionati, e troppo spesso mortificati.

Un secondo grande problema riguarda la moltiplicazione dei decisori: troppi prendono le decisioni, troppe sono le competenze multiple che si affastellano tra i diversi enti e livelli istituzionali. Il Presidente dell’Anci Antonio Decaro è arrivato giustamente a parlare di “Repubblica dell’adempimento formale”. Migliaia di dipendenti che fanno amministrazione passiva, fanno cioè girare le carte, utili spesso solo a relazionarsi con altri livelli o organi dello Stato. E infine troppi controllano chi decide: abbiamo un sistema multiplo e farraginoso di accertamenti, che evidentemente non ha aiutato a garantire la legalità, ma che in compenso tiene in ostaggio per anni e anni opere pubbliche.

Così l’Italia s’è fermata. Con il paradosso di avere, come ha ricordato il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, miliardi di euro a disposizione che non si riescono a spendere. Tre sono stati sbloccati dal ministero delle Infrastrutture in queste settimane ma ecco un capitolo chiaro sul quale misurare innovazione e riformismo di un intero sistema che non funziona più. Non fuggire, chiudere o arretrare, ma cambiare e migliorare con passione e idealità quello che non funziona. Tra le tante, vedo tre priorità:

1) Un grande investimento sulla qualità del personale amministrativo.

In questi anni il settore pubblico si è impoverito, sia in termini di quantità che di qualità. Stiamo per gestire il turn over nel pubblico impiego più massiccio dell’ultimo trentennio: la sostituzione di circa 500 mila dipendenti pubblici, in ragione del pensionamento dei cosiddetti babyboomers. Può diventare un’emergenza, come indicano i sindacati, se non usiamo bene questa opportunità. Serve un piano straordinario per assumere nelle pubbliche amministrazioni, soprattutto territoriali, nuove figure tecniche e aprire le porte a una nuova generazione. Solo assumendo migliaia di ingegneri, architetti, geologi ecc. potremo controllare bene le autostrade concesse al Mit, mitigare il dissesto idrogeologico nelle Regioni, rendere più sicure le scuole nei Comuni. Sono solo alcuni esempi che indicano con chiarezza la strada da seguire. Investire nell’infrastruttura professionale e delle competenze è l’unica possibilità per realizzare e mantenere infrastrutture materiali, anche ricorrendo al mercato, ma con intelligenza, con strumenti come “l’equo compenso”, che tutelano la qualità offerta dalle figure tecniche che lavorano per la pubblica amministrazione con un proporzionato valore economico.

2) Serve poi una grande opera di disboscamento delle competenze tra i diversi livelli amministrativi

specie dopo l’interruzione di un percorso di riforme istituzionali rimasto incompiuto, lasciando nell’incertezza centinaia di amministrazioni locali. Lanciamo un’opera di ridefinizione degli ambiti amministrativi da realizzare assieme ai sindaci e ai presidenti di Regione, eliminando sdoppiamenti, intrecci, sovrapposizioni.

3) Infine, dobbiamo occuparci con coraggio di una riforma della Giustizia amministrativa

per evitare che la legittima domanda di tutela affoghi in un mare di ricorsi strumentali avanzati solo per rallentare o immobilizzare la realizzazione di opere pubbliche.

Sono quindi molti i motivi che ci spingono a impegnarci per un piano “Italia semplice”, sono molte le possibili soluzioni, sicuramente sono tante anche le difficoltà. Ma io penso che sia il momento di mettere il dito nella piaga, perché l’Italia ferma, impaurita e fragile è un problema anche per la credibilità della nostra democrazia.


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