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Silvia Costa: vogliamo un’Europa popolare e non pupulista - intervista di Bene Comune

31 Gennaio 2019

Proponiamo un’ampia intervista a Silvia Costa, parlamentare europea e Presidente della Commissione Cultura e Istruzione. L’intervista è stata realizzata da Fabio Cucculelli


Sturzo rivolge il suo appello agli uomini, non ai cattolici, agli uomini moralmente liberi, quasi un grido pronunciato subito dopo la fine della guerra al fine di evitare altre guerre. Intuisce che un’Europa fatta di stati ‘vinti e poveri’, dopo la catastrofe della guerra e all’interno di rapide trasformazioni sociali, può cadere facilmente vittima dell’esasperazioni ideologiche di tipo nazionalistico, come il nazismo ed il fascismo, nemici della democrazia e della pace. 

E’ già evidente nel suo pensiero un’idea, un progetto europeo, di stati che si mettono insieme per garantire la pace e lo sviluppo come avverrà successivamente con la nascita dell’Unione europea. Quali sono le idee europeiste contenute in questo appello? Che eredità lascia il popolarismo sturziano all’Europa?

E’ interessante vedere nel testo dell’appello agli uomini di buona volontà, i liberi e forti, come li chiama Sturzo, la dimensione internazionale in cui inquadra il futuro del nostro Paese. Chiaramente con una attenzione ad una dimensione politica di ispirazione cristiana. Ricordiamo che Sturzo non ha mai voluto fondare un partito cattolico ma composto anche da cattolici, di natura aconfessionale e con un sua autonomia. Nell’appello di Sturzo alla Società delle nazioni si capisce che il clima è quello di un primo dopoguerra in cui egli già vedeva i rischi della pace tra vincitori e vinti ossia il pericolo che si aprissero conflitti legati ad un assetto non adeguato dei paesi usciti dalla guerra. Ed ancora il rischio che le frustrazioni si trasformassero in nazionalismi, come poi puntualmente avvenuto – pensiamo alla Germania – che potevano pregiudicare la pace. Da qui alcune importantissime richieste che egli fa alle nazioni.

Penso ad esempio al dovere di riconoscere le giuste aspirazioni nazionali oppure alla necessità di affrettare il disarmo universale, parola allora non così diffusa nella coscienza popolare. Una elemento importante mi sembra anche la richiesta alle nazioni di abolire l’istituto dei trattati e garantire la libertà dei mari. Soprattutto, ed è molto specifico dell’approccio di un cristiano alla politica, Sturzo sottolineava la necessità, nei rapporti internazionali, di promuovere la legislazione sociale, la libertà religiosa e l’uguaglianza nel lavoro. Insomma una democrazia internazionale e una cooperazione basata su questi principi. Accanto alla dimensione sociale, per il prete siciliano, è importante la dimensione dei diritti umani e della legalità; per questo chiede di comminare sanzioni e mettere in atto mezzi che possano tutelare i diritti dei popoli deboli, prassi che prenderà avvio molto più tardi.



Negli anni in cui è stato in esilio, già nel 1928 a Londra, Sturzo aveva tenuto discorsi profetici in cui è stato precursore di una Europa unita. Questo vorrei ricordarlo perché molto spesso non viene messo in evidenza: disse che gli Stati uniti d’Europa non erano una utopia ma un ideale a cui tendere, con diverse tappe e con molte difficoltà. Questo lo lego all’appello ai liberi e forti perché in esso c’è già un eco di questa concezione: coltivare un’utopia degli stati d’Europa consapevoli che si rischia di non realizzare questo obiettivo se non ci sarà un’intesa economica larga, una politica democratica più omogenea, modalità che affratellino i popoli e la consapevolezza che le federazioni non si fanno sulla carta ma devono partire dai popoli e dallo sviluppo reale.

Quale eredità lascia il popolarismo sturziano all’Europa?

Sturzo è stato il primo a parlare di Europa unita. Già in un testo del 1918 fa riferimento a questo tema ma la prima volta che ne fa menzione è nel 1928. Sturzo propone una visione profetica e pionieristica che è consapevole che il processo sarà graduale. Questo contributo di una cultura politica di ispirazione cristiana, con alti e bassi, ha concorso a determinare la costruzione del progetto europeo.

Come possono i governi e le nazioni insieme, superando le tentazioni sovraniste, perseguire gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali e del lavoro? Come perseguire nell’attuale contesto sociale, politico e culturale italiano ed europeo gli ideali di giustizia e libertà?

Il progetto europeo, che concretamente nasce nel secondo dopoguerra, ha una prima spinta con l’economia. Nel clima del secondo dopoguerra già mettere insieme le materie prime (carbone e acciaio) prevenendo possibili abusi, creando l’idea di un mercato unico europeo insieme ad una definizione dei diritti fondamentali che vanno garantiti a tutti i cittadini che fanno parte dell’Europa e anche i doveri che hanno gli stati membri di riconoscere questi diritti e tutele, è stato il passo necessario per legare assieme gli interessi economici e di sviluppo economico con quelli democratici. Certamente questo equilibrio è sempre stato abbastanza precario, per cui si è verificato un avanzamento forte dell’integrazione politica e altre volte una battuta di arresto di questa a favore dell’integrazione economica. Questo è chiaramente legato a fattori storici e ad altri elementi. L’ampliamento dell’Europa fino a quindici, poi a ventidue e ventisette è stato troppo veloce per poter consentire un rafforzamento delle istituzioni democratiche europee e definire meglio i contenuti dell’Europa sociale. Prodi, ma anche Ciampi e Andreatta hanno portato avanti una visione utopica ma giusta che ha contribuito all’adozione della moneta unica anche da parte dell’Italia. Fin da allora si sosteneva che questo atto sarebbe stato il primo e fondamentale passo ma che doveva essere accompagnato da una politica finanziaria ed economica europea e da una politica sociale. Invece dopo il 2000, vi sono stati molti governi che hanno preso posizioni euroscettiche e l’allargamento non ha consentito di rafforzare le istituzioni comunitarie, come si sarebbe dovuto, determinando una battuta di arresto che la crisi del 2008 ha acuito.



Quindi gli stati anziché andare nel senso di una maggiore integrazione hanno optato per una maggiore autonomia…

Si… acuita dalla teorizzazione del sovranismo e dai nazionalismi. In questo periodo c’è stato anche un aggravamento, a livello mondiale e mediterraneo, dei conflitti e dei fondamentalismi; tutto questo ha visto una risposta iniziale dell’Europa ma, in questi ultimi dieci anni, sono state solo di tipo economico-finanziario e non politico. Questo è il punto da cui dovremmo riprendere il cammino di un progetto che si è fermato a metà. Il Parlamento europeo ha spinto per riprendere il pilastro sociale e perché si riparlasse dei diritti dei lavoratori presenti o della necessità di realizzare politiche sociali e di welfare convergenti. Quando si dice “Europa” io osservo sempre distinguiamo: sono i governi, oggi in maggioranza euroscettici e conservatori che nel Consiglio dei ministri, frenano. Il Parlamento è sempre stato avanti e questo sarebbe importante dirlo. Rispetto a questo credo che oggi si debbano riaffezionare i cittadini ad una Europa non più matrigna ma che pensa a rafforzare la cittadinanza.

Che ruolo possono ancora svolgere i cattolici sia a livello europeo che nazionale sul piano sociale e politico per operare una “nuova civilizzazione” del mondo? In quali forme?

Abbiamo certamente bisogno, e lo ha dimostrato anche l’iniziativa molto importante “La nostra Europa” – realizzata da Acli, Azione cattolica, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Tarantelli della Cisl, FUCI, Confcooperative e Istituto Sturzo – di una grande consapevolezza che il ruolo dei cattolici, in particolare, è quello di riportare il senso di una speranza e verità rispetto alla concezione dell’Europa da intendere come comunità di destini, come processo irreversibile. Questo anche portando avanti una serie di proposte di riforma che possano renderla più forte. In sostanza oggi c’è bisogno di una contro narrativa sull’Europa, oggi dipinta come matrigna e negatrice della sovranità dei paesi. Oggi la sovranità di fronte alle sfide, che sono tutte transazionali – dall’immigrazione al clima, dai mercati alla finanza fino alla povertà – si gioca tutta sul piano internazionale. E’ illusorio non credere che l’Europa possa invece essere il luogo di una sovranità. Il punto è che – e in questo i cattolici hanno una cultura politica del limite e della sussidiarietà – la logica non sia omologante ma che guardi anche agli aspetti ascendenti delle decisioni politiche dotando istituzioni europee di una maggiore democrazia interna. Abbiamo bisogno che anche dai cattolici possa venire la dimostrazione di un bisogno reciproco, di un legame inscindibile tra Italia e Europa. E’ impensabile oggi un distacco e lo dimostra anche l’impatto che sta avendo la Brexit. Come stati membri apparteniamo all’Unione Europea e quindi siamo molto intrecciati come storie e destini. Dobbiamo sempre ricordare a tutti che c’è bisogno di più Europa, di un Europa popolare e non populista (ovvero con qualcuno che fa il demiurgo in nome di un popolo) che rispetti i processi decisionali, le comunità naturali e gli organismi intermedi e che sia rispettosa delle culture, delle fedi, delle identità; che abbia una visione positiva, che sia capace di dare vita ad una nuova fase più giusta e creativa. Quello che dovremmo proporre al mondo è un modello del vivere insieme e per gli altri, tipico del modello sociale europeo e della storia dell’Europa.



Guardando al contesto italiano quali riforme della previdenza, del lavoro, del welfare e del fisco sono più in linea con la direzione indicata dall’Appello? Quali riforme sono necessarie per garantire maggiori condizioni di giustizia nel nostro Paese?

Nel nostro Paese dobbiamo fare ciò che in Europa è chiamato il workfare, cioè un sistema di welfare che dal lato della lotta alla povertà cerca di individuare i poveri e gli incapienti, ovvero quelle realtà di povertà assoluta cui oggi non si conosce nulla. Si parla di reddito di cittadinanza, che però è un incrocio di diversi obiettivi e quindi col rischio di non colpire nel segno. Il nuovo welfare deve essere orientato al tema famiglia, poiché credo ci siano grosse ingiustizie tra famiglie in Europa. Oggi in altri Paesi vi sono molte più risorse da dedicare ai figli e quindi una famiglia, quando cresce, quando nascono i figli non finisce per impoverirsi, come succede in Italia.

A suo tempo avevamo proposto di arrivare almeno ad un sostegno di quattrocento euro al mese per ogni figlio tra assegni e detrazioni e questo mi sembra giustissimo. Altra forma di giustizia è avere – e ormai se ne sta parlando a livello Europeo – un salario minimo per le persone che sono fuori dai contratti nazionali, e si tratta soprattutto di giovani. Poi bisogna introdurre maggiori detrazioni per i costi di istruzione, ripensare il numero chiuso universitario e realizzare forti investimenti nello studio. Questo è un punto di cui si parla poco perché la conoscenza è ciò che farà la differenza e consentirà di ridurre la diseguaglianza; l’accesso alla conoscenza durante l’arco della vita deve essere garantito.

Altra questione è l’attenzione alle risorse: pagare meno tasse ma pagare tutti, da una parte e ridurre il carico fiscale sul lavoro. Ed è importante – questo processo è stato avviato dallo scorso governo – sbloccare, dopo tanti anni, il turnover nella pubblica amministrazione per ridare spazio ai giovani e affezionarli ad un lavoro nelle istituzioni. Occorre inoltre fare un ragionamento su come mettere in sicurezza il futuro delle nuove generazioni dal punto di vista previdenziale. Infine occorre fare in modo che il federalismo italiano non sia un federalismo delle diseguaglianze.

Ha accennato al reddito di cittadinanza. Non sembra andare nella direzione la lei auspicata

Innanzitutto ha un costo altissimo e una durata limitata. Si parla per adesso di un anno più otto mesi, quindi non è una misura strutturale. Comunque mi sembra un po’ un ibrido tra lotta alla povertà e politiche attive. Bisogna osservare che la povertà assoluta non è toccata da questa misura perché si parla sempre di Isee e quindi bisogna capire come si va a aiutare ad esempio gli homless. Il sostengo non può essere sempre e soltanto vincolato solo all’occupabilità in quanto ci sono situazioni di disperazione. Il punto è di garantire prima la sopravvivenza e un minimo di autonomia alle persone e questo target (chi è in povertà assoluta e quindi incapiente) viene confuso con l’altro, legato alle politiche attive, ai centri per l’impiego. C’è il rischio di non cogliere le priorità e di confondere questo strumento con altri che già esistono e che vengono annacquati in un enorme calderone. Vi sono misure per i disoccupati di lunga durata, strumenti mirati come la garanzia giovani con fondi europei, e così via, con il rischio forte che i conti non tornino ma soprattutto che questa grande macchina operativa, che ancora adesso non è in grado di funzionare, non entri a regime nei tempi giusti.

Come ha detto lei è evidente che manca una visione di insieme che lega le politiche della previdenza, del lavoro e del welfare.

Si e poi c’è un’altra questione. Il governo dice che il reddito di cittadinanza si può pagare con il fondo sociale europeo. Ma attenzione, perché anche il Rei è finanziato pro-quota con il fondo sociale, ma il fondo sociale europeo è destinato a molte e diverse azioni: c’è la lotta alla povertà, ci sono i giovani, c’è il lavoro e tantissimi altri obiettivi e non può gravare tutto su questo strumento.



Il federalismo sturziano in che senso potrebbe aiutare il nostro Paese ed in particolare il Mezzogiorno a trovare una sua dinamica di sviluppo? Può essere di aiuto anche in ambito europeo?

Questa è un po’ una spina nel fianco. Oggi in Italia non si può più parlare di statistiche nazionali ma occorre suddividerle per aree geografiche. Abbiamo ad esempio indicatori europei sul lavoro delle donne, sulla disoccupazione giovanile o anche indicatori sulla scolarizzazione che vedono alcune regioni del Nord pienamente integrate in Europa ed enormi differenze nelle regioni del Sud, anche se non in tutte. Questo è un tema che rimane assolutamente nazionale e la cui soluzione non può venire fuori da un governo nell’arco di pochi anni ma è una opera lunga di salda cooperazione nazionale; se non c’è una unità nazionale non si salva il Mezzogiorno, che deve contribuire in prima persona. Per questo Sturzo era a favore di un’autonomia forte dei Comuni e delle Regioni che dovevano assumere un loro ruolo in una concezione però di solidarietà nazionale. Questo è venuto molto a mancare, perché c’è una visione, anche nel nuovo governo, in cui non intravedo nessuna politica per il Sud – a parte lo strumento del reddito di cittadinanza – che però è spalmato su tutto il Paese. Non vedo leve per cooperare a livello nazionale e dare un ruolo e una missione al Sud anche per valorizzare alcune eccellenze che ci sono.

Ad esempio nel campo della formazione, moltissimi ragazzi del Sud sono brillanti, hanno spirito imprenditoriale ma emigrano. Ci devono essere delle azioni perché si creino e sviluppino dei luoghi di produzione e innovazione che in qualche modo possano fare crescere i territori. Il punto vero è che, come diceva don Sturzo, la redenzione comincia da “noi meridionali”. Bisogna riprendere un protagonismo politico e amministrativo di indirizzo delle regioni del Sud, dove vediamo che in alcuni luoghi si stanno creando delle realtà molto interessanti e innovative; soprattutto quando si collegano con una visione europea. Ad esempio a Palermo e Napoli dove sono stati utilizzati i fondi europei abbiamo visto dei risultati. Penso anche alla Puglia, dove si è puntato alla promozione culturale e ambientale. Fa piacere che per la prima volta la capitale europea della cultura sia Matera. Si tratta di segnali che vanno messi in rete per dare alla persone che lì vivono una occasione di lavoro e di innovazione.

Il 2018 è stato l’anno europeo del patrimonio culturale in che modo la cultura europea può aiutare i cittadini ad essere più consapevoli della loro identità europea? 

Noi abbiamo voluto fortemente questo anno europeo della cultura contro tutto e contro tutti superando anche un “niet” della Commissione europea. Lo abbiamo voluto io come presidente della Commissione cultura e il governo italiano assieme ad altri paesi. E’ stato un anno importante perché capivamo che nella crisi di appartenenza, nella crisi di valori e anche in questa perdita di consapevolezza di appartenere ad una comunità di destini c’era bisogno di ripartire dalla cultura.  Monet, uno dei fondatori della comunità europea, ebbe a dire che se avesse dovuto ricominciare la costruzione del progetto europeo, lo avrebbe fatto partendo dalla cultura. Penso che la dimensione culturale, educativa e di costruzione di cittadinanza dal basso sia quella sulla quale va fatto il più importante e duraturo investimento. L’anno europeo è stato innanzitutto una messa in comune di consapevolezza e di una narrazione di una storia comune; ci sono stati moltissimi progetti transazionali che hanno interessato anche paesi che erano stati in conflitto e che hanno ricostruito insieme quegli anni ed eventi col tentativo di trovare una visione comune; questo è stato fondamentale.

Altra questione importante è stata quella relativa all’aver riconosciuto al patrimonio culturale un valore intrinseco, di riconoscimento delle comunità, delle identità ma anche di grande risorsa di produzione di valore economico e di nuova cultura. In Italia stiamo ratificando la convenzione di Faro, la quale per la prima volta dice che il cittadino ha diritto alla conoscenza, all’accesso ai beni culturali ma che è anche responsabile verso il suo patrimonio culturale.

L’educazione al patrimonio culturale, nazionale ed europeo, è una questione molto rilevante che mostra come l’Europa sia fatta di intrecci, di grandi storie. Pensiamo al grande compositore Ciaikovskij che sosteneva che un musicista non può che essere europeo e la musica, su cui si forma e studia, è il frutto di una Europa che ha dialogato. Il tema oggi è come fare in modo che tutto finisca con il 2018.

Penso alla grande emozione e a quello che abbiamo fatto per ottenere una tutela più ampia del patrimonio universale, contro la distruzione intenzionale del patrimonio, dichiarato crimine contro l’umanità. Secondo me questo ha fatto risvegliare nella coscienza degli europei la consapevolezza che c’è una storia che appartiene a tutti e che deve essere patrimonio comune e non di un singolo Paese. Il patrimonio non è solo quello materiale ma anche immateriale, spirituale, religioso. Questo è il nucleo importante su cui ricostruire un amore per l’Europa. Penso ad esempio al fatto che adesso abbiamo ottenuto una agenda europea per la cultura, quindi una policy che tocca il tema del patrimonio, le imprese culturali e creative che sono un settore promettente di sviluppo; il tema di una nuova diplomazia culturale europea e il tema della educazione e della conoscenza. Sono questi i grandi assi su cui poggiare il quarto pilastro.



Vedendo anche alle scelte del governo italiano sul versante migratorio vi è una questione europea di fondo. Uno dei limiti è la mancanza di una politica migratoria comune, che possa garantire una reale gestione dei flussi, specie nel Mediterraneo. Lei che valutazione fa di tutto questo?

Ci troviamo in una situazione paradossale: lo stesso governo che oggi impedisce di sbarcare a quei pochi migranti a Siracusa, e la cui unica parola d’ordine è sgomberare, rimpatriare (e poi non lo fa) è lo stesso governo che poi chiede all’Europa di occuparsi di più dell’immigrazione. Allora, si è sovrani o si riconosce che senza un accordo europeo non si va da nessuna parte? Oggi c’è questa contraddizione. Siamo di fronte alla sfida di un processo migratorio che ha cause diverse e che avvolge ormai il mondo; si parla di cinquanta milioni di persone che sono in movimento in Europa. E’ dunque un fenomeno strutturale e il nostro paese ha a che fare con questa questione da decenni; ma adesso viene tutto ricondotto alla voce “emergenza”. Si tratta di un ritorno indietro, perché di fatto, noi e altri Paesi europei, abbiamo chiuso le vie legali per venire in Europa. Questo è assurdo, perché è una Europa che si sta impoverendo di persone, di lavoratori e anche di giovani.

Secondo lei ci sono segnali per i quali l’Europa possa prendere una decisone comune e chiara sul fenomeno migratorio?

Da parte di alcuni paesi purtroppo c’è paura, chiusura delle frontiere e non si stanno dando le risposte che invece sarebbe necessarie. Come Parlamento europeo abbiamo approvato, con un grande apporto del centrosinistra, una riforma della convenzione di Dublino. Cosa chiediamo? Innanzitutto la solidarietà dei vari paesi con quote condivise ma obbligatorie dei migranti che arrivano e con sanzioni. Purtroppo invece nell’ultima riunione dei ministri il nostro governo, con Orban, ha sostenuto il “no” alle quote obbligatorio, con un autogol clamoroso e incomprensibile. Abbiamo anche chiesto che l’Europa sostenga le politiche di integrazione con alcuni principi base, come il diritto al ricongiungimento familiare e un’altra serie di diritti di cittadinanza e residenza.

Certamente occorre combattere insieme per tutelare le frontiere e per la lotta ai trafficanti di clandestini mentre altra cosa da fare sono politiche, da confrontare tra i vari paesi, per non lasciare soltanto al paese di primo arrivo il compito di fare tutte le pratiche per il diritto o meno all’asilo, evitando così di trattenere le persone per mesi. Ricordando però che l’artificiosa distinzione tra richiedenti asilo e immigrati per povertà o altre ragioni ha due conseguenze paradossali: da un lato chiunque viene non ha una via legale per farlo e quindi deve forzatamente rientrare tra i richiedenti asilo; dall’altro i richiedenti asilo che avrebbero diritto a questo status vengono trattati in maniera assolutamente indecente da alcuni governi.

C’è una esigenza fortissima e in questo mi fa piacere che la Chiesa, molti cattolici e molte istituzioni locali, siano dalla parte dei diritti umani e per salvare delle vite. Una gestione coordinata delle politiche migratorie a livello nazionale, locale ed europeo è necessaria; il problema è che oggi, rispetto al trattato di Lisbona la competenza dell’Europa è limitata in ambito migratorio. Ce l’ha nell’ambito dell’asilo. Vi è quindi la situazione assurda di governi nazionalisti che da un lato dicono che per l’immigrazione l’Europa deve fare di più ma non gli danno questo potere…

Però queste scelte del Parlamento europeo sono poco note e forse andrebbero fatte conoscere meglio

A proposito della riforma dell’accordo di Dublino, questa non è stata una sola decisione del Consiglio dei ministri, perché come noto Parlamento e Consiglio sono le due camere dell’Europa. Al Parlamento sovranisti, nazionalisti, ecc. hanno detto non procediamo e hanno lasciato le cose com’erano, pertanto Salvini se la prenda con sé stesso.

Proponiamo un’ampia intervista a Silvia Costa, parlamentare europea e Presidente della Commissione Cultura e Istruzione. L’intervista è stata realizzata da Fabio Cucculelli



Sturzo rivolge il suo appello agli uomini, non ai cattolici, agli uomini moralmente liberi, quasi un grido pronunciato subito dopo la fine della guerra al fine di evitare altre guerre. Intuisce che un’Europa fatta di stati ‘vinti e poveri’, dopo la catastrofe della guerra e all’interno di rapide trasformazioni sociali, può cadere facilmente vittima dell’esasperazioni ideologiche di tipo nazionalistico, come il nazismo ed il fascismo, nemici della democrazia e della pace. 

E’ già evidente nel suo pensiero un’idea, un progetto europeo, di stati che si mettono insieme per garantire la pace e lo sviluppo come avverrà successivamente con la nascita dell’Unione europea. Quali sono le idee europeiste contenute in questo appello? Che eredità lascia il popolarismo sturziano all’Europa?

E’ interessante vedere nel testo dell’appello agli uomini di buona volontà, i liberi e forti, come li chiama Sturzo, la dimensione internazionale in cui inquadra il futuro del nostro Paese. Chiaramente con una attenzione ad una dimensione politica di ispirazione cristiana. Ricordiamo che Sturzo non ha mai voluto fondare un partito cattolico ma composto anche da cattolici, di natura aconfessionale e con un sua autonomia. Nell’appello di Sturzo alla Società delle nazioni si capisce che il clima è quello di un primo dopoguerra in cui egli già vedeva i rischi della pace tra vincitori e vinti ossia il pericolo che si aprissero conflitti legati ad un assetto non adeguato dei paesi usciti dalla guerra. Ed ancora il rischio che le frustrazioni si trasformassero in nazionalismi, come poi puntualmente avvenuto – pensiamo alla Germania – che potevano pregiudicare la pace. Da qui alcune importantissime richieste che egli fa alle nazioni.

Penso ad esempio al dovere di riconoscere le giuste aspirazioni nazionali oppure alla necessità di affrettare il disarmo universale, parola allora non così diffusa nella coscienza popolare. Una elemento importante mi sembra anche la richiesta alle nazioni di abolire l’istituto dei trattati e garantire la libertà dei mari. Soprattutto, ed è molto specifico dell’approccio di un cristiano alla politica, Sturzo sottolineava la necessità, nei rapporti internazionali, di promuovere la legislazione sociale, la libertà religiosa e l’uguaglianza nel lavoro. Insomma una democrazia internazionale e una cooperazione basata su questi principi. Accanto alla dimensione sociale, per il prete siciliano, è importante la dimensione dei diritti umani e della legalità; per questo chiede di comminare sanzioni e mettere in atto mezzi che possano tutelare i diritti dei popoli deboli, prassi che prenderà avvio molto più tardi.

Negli anni in cui è stato in esilio, già nel 1928 a Londra, Sturzo aveva tenuto discorsi profetici in cui è stato precursore di una Europa unita. Questo vorrei ricordarlo perché molto spesso non viene messo in evidenza: disse che gli Stati uniti d’Europa non erano una utopia ma un ideale a cui tendere, con diverse tappe e con molte difficoltà. Questo lo lego all’appello ai liberi e forti perché in esso c’è già un eco di questa concezione: coltivare un’utopia degli stati d’Europa consapevoli che si rischia di non realizzare questo obiettivo se non ci sarà un’intesa economica larga, una politica democratica più omogenea, modalità che affratellino i popoli e la consapevolezza che le federazioni non si fanno sulla carta ma devono partire dai popoli e dallo sviluppo reale.

Quale eredità lascia il popolarismo sturziano all’Europa?

Sturzo è stato il primo a parlare di Europa unita. Già in un testo del 1918 fa riferimento a questo tema ma la prima volta che ne fa menzione è nel 1928. Sturzo propone una visione profetica e pionieristica che è consapevole che il processo sarà graduale. Questo contributo di una cultura politica di ispirazione cristiana, con alti e bassi, ha concorso a determinare la costruzione del progetto europeo.

Come possono i governi e le nazioni insieme, superando le tentazioni sovraniste, perseguire gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali e del lavoro? Come perseguire nell’attuale contesto sociale, politico e culturale italiano ed europeo gli ideali di giustizia e libertà?

Il progetto europeo, che concretamente nasce nel secondo dopoguerra, ha una prima spinta con l’economia. Nel clima del secondo dopoguerra già mettere insieme le materie prime (carbone e acciaio) prevenendo possibili abusi, creando l’idea di un mercato unico europeo insieme ad una definizione dei diritti fondamentali che vanno garantiti a tutti i cittadini che fanno parte dell’Europa e anche i doveri che hanno gli stati membri di riconoscere questi diritti e tutele, è stato il passo necessario per legare assieme gli interessi economici e di sviluppo economico con quelli democratici. Certamente questo equilibrio è sempre stato abbastanza precario, per cui si è verificato un avanzamento forte dell’integrazione politica e altre volte una battuta di arresto di questa a favore dell’integrazione economica. Questo è chiaramente legato a fattori storici e ad altri elementi. L’ampliamento dell’Europa fino a quindici, poi a ventidue e ventisette è stato troppo veloce per poter consentire un rafforzamento delle istituzioni democratiche europee e definire meglio i contenuti dell’Europa sociale. Prodi, ma anche Ciampi e Andreatta hanno portato avanti una visione utopica ma giusta che ha contribuito all’adozione della moneta unica anche da parte dell’Italia. Fin da allora si sosteneva che questo atto sarebbe stato il primo e fondamentale passo ma che doveva essere accompagnato da una politica finanziaria ed economica europea e da una politica sociale. Invece dopo il 2000, vi sono stati molti governi che hanno preso posizioni euroscettiche e l’allargamento non ha consentito di rafforzare le istituzioni comunitarie, come si sarebbe dovuto, determinando una battuta di arresto che la crisi del 2008 ha acuito.



Quindi gli stati anziché andare nel senso di una maggiore integrazione hanno optato per una maggiore autonomia…

Si… acuita dalla teorizzazione del sovranismo e dai nazionalismi. In questo periodo c’è stato anche un aggravamento, a livello mondiale e mediterraneo, dei conflitti e dei fondamentalismi; tutto questo ha visto una risposta iniziale dell’Europa ma, in questi ultimi dieci anni, sono state solo di tipo economico-finanziario e non politico. Questo è il punto da cui dovremmo riprendere il cammino di un progetto che si è fermato a metà. Il Parlamento europeo ha spinto per riprendere il pilastro sociale e perché si riparlasse dei diritti dei lavoratori presenti o della necessità di realizzare politiche sociali e di welfare convergenti. Quando si dice “Europa” io osservo sempre distinguiamo: sono i governi, oggi in maggioranza euroscettici e conservatori che nel Consiglio dei ministri, frenano. Il Parlamento è sempre stato avanti e questo sarebbe importante dirlo. Rispetto a questo credo che oggi si debbano riaffezionare i cittadini ad una Europa non più matrigna ma che pensa a rafforzare la cittadinanza.

Che ruolo possono ancora svolgere i cattolici sia a livello europeo che nazionale sul piano sociale e politico per operare una “nuova civilizzazione” del mondo? In quali forme?

Abbiamo certamente bisogno, e lo ha dimostrato anche l’iniziativa molto importante “La nostra Europa” – realizzata da Acli, Azione cattolica, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Tarantelli della Cisl, FUCI, Confcooperative e Istituto Sturzo – di una grande consapevolezza che il ruolo dei cattolici, in particolare, è quello di riportare il senso di una speranza e verità rispetto alla concezione dell’Europa da intendere come comunità di destini, come processo irreversibile. Questo anche portando avanti una serie di proposte di riforma che possano renderla più forte. In sostanza oggi c’è bisogno di una contro narrativa sull’Europa, oggi dipinta come matrigna e negatrice della sovranità dei paesi. Oggi la sovranità di fronte alle sfide, che sono tutte transazionali – dall’immigrazione al clima, dai mercati alla finanza fino alla povertà – si gioca tutta sul piano internazionale. E’ illusorio non credere che l’Europa possa invece essere il luogo di una sovranità. Il punto è che – e in questo i cattolici hanno una cultura politica del limite e della sussidiarietà – la logica non sia omologante ma che guardi anche agli aspetti ascendenti delle decisioni politiche dotando istituzioni europee di una maggiore democrazia interna. Abbiamo bisogno che anche dai cattolici possa venire la dimostrazione di un bisogno reciproco, di un legame inscindibile tra Italia e Europa. E’ impensabile oggi un distacco e lo dimostra anche l’impatto che sta avendo la Brexit. Come stati membri apparteniamo all’Unione Europea e quindi siamo molto intrecciati come storie e destini. Dobbiamo sempre ricordare a tutti che c’è bisogno di più Europa, di un Europa popolare e non populista (ovvero con qualcuno che fa il demiurgo in nome di un popolo) che rispetti i processi decisionali, le comunità naturali e gli organismi intermedi e che sia rispettosa delle culture, delle fedi, delle identità; che abbia una visione positiva, che sia capace di dare vita ad una nuova fase più giusta e creativa. Quello che dovremmo proporre al mondo è un modello del vivere insieme e per gli altri, tipico del modello sociale europeo e della storia dell’Europa.



Guardando al contesto italiano quali riforme della previdenza, del lavoro, del welfare e del fisco sono più in linea con la direzione indicata dall’Appello? Quali riforme sono necessarie per garantire maggiori condizioni di giustizia nel nostro Paese?

Nel nostro Paese dobbiamo fare ciò che in Europa è chiamato il workfare, cioè un sistema di welfare che dal lato della lotta alla povertà cerca di individuare i poveri e gli incapienti, ovvero quelle realtà di povertà assoluta cui oggi non si conosce nulla. Si parla di reddito di cittadinanza, che però è un incrocio di diversi obiettivi e quindi col rischio di non colpire nel segno. Il nuovo welfare deve essere orientato al tema famiglia, poiché credo ci siano grosse ingiustizie tra famiglie in Europa. Oggi in altri Paesi vi sono molte più risorse da dedicare ai figli e quindi una famiglia, quando cresce, quando nascono i figli non finisce per impoverirsi, come succede in Italia.

A suo tempo avevamo proposto di arrivare almeno ad un sostegno di quattrocento euro al mese per ogni figlio tra assegni e detrazioni e questo mi sembra giustissimo. Altra forma di giustizia è avere – e ormai se ne sta parlando a livello Europeo – un salario minimo per le persone che sono fuori dai contratti nazionali, e si tratta soprattutto di giovani. Poi bisogna introdurre maggiori detrazioni per i costi di istruzione, ripensare il numero chiuso universitario e realizzare forti investimenti nello studio. Questo è un punto di cui si parla poco perché la conoscenza è ciò che farà la differenza e consentirà di ridurre la diseguaglianza; l’accesso alla conoscenza durante l’arco della vita deve essere garantito.

Altra questione è l’attenzione alle risorse: pagare meno tasse ma pagare tutti, da una parte e ridurre il carico fiscale sul lavoro. Ed è importante – questo processo è stato avviato dallo scorso governo – sbloccare, dopo tanti anni, il turnover nella pubblica amministrazione per ridare spazio ai giovani e affezionarli ad un lavoro nelle istituzioni. Occorre inoltre fare un ragionamento su come mettere in sicurezza il futuro delle nuove generazioni dal punto di vista previdenziale. Infine occorre fare in modo che il federalismo italiano non sia un federalismo delle diseguaglianze.

Ha accennato al reddito di cittadinanza. Non sembra andare nella direzione la lei auspicata

Innanzitutto ha un costo altissimo e una durata limitata. Si parla per adesso di un anno più otto mesi, quindi non è una misura strutturale. Comunque mi sembra un po’ un ibrido tra lotta alla povertà e politiche attive. Bisogna osservare che la povertà assoluta non è toccata da questa misura perché si parla sempre di Isee e quindi bisogna capire come si va a aiutare ad esempio gli homless. Il sostengo non può essere sempre e soltanto vincolato solo all’occupabilità in quanto ci sono situazioni di disperazione. Il punto è di garantire prima la sopravvivenza e un minimo di autonomia alle persone e questo target (chi è in povertà assoluta e quindi incapiente) viene confuso con l’altro, legato alle politiche attive, ai centri per l’impiego. C’è il rischio di non cogliere le priorità e di confondere questo strumento con altri che già esistono e che vengono annacquati in un enorme calderone. Vi sono misure per i disoccupati di lunga durata, strumenti mirati come la garanzia giovani con fondi europei, e così via, con il rischio forte che i conti non tornino ma soprattutto che questa grande macchina operativa, che ancora adesso non è in grado di funzionare, non entri a regime nei tempi giusti.

Come ha detto lei è evidente che manca una visione di insieme che lega le politiche della previdenza, del lavoro e del welfare.

Si e poi c’è un’altra questione. Il governo dice che il reddito di cittadinanza si può pagare con il fondo sociale europeo. Ma attenzione, perché anche il Rei è finanziato pro-quota con il fondo sociale, ma il fondo sociale europeo è destinato a molte e diverse azioni: c’è la lotta alla povertà, ci sono i giovani, c’è il lavoro e tantissimi altri obiettivi e non può gravare tutto su questo strumento.



Il federalismo sturziano in che senso potrebbe aiutare il nostro Paese ed in particolare il Mezzogiorno a trovare una sua dinamica di sviluppo? Può essere di aiuto anche in ambito europeo?

Questa è un po’ una spina nel fianco. Oggi in Italia non si può più parlare di statistiche nazionali ma occorre suddividerle per aree geografiche. Abbiamo ad esempio indicatori europei sul lavoro delle donne, sulla disoccupazione giovanile o anche indicatori sulla scolarizzazione che vedono alcune regioni del Nord pienamente integrate in Europa ed enormi differenze nelle regioni del Sud, anche se non in tutte. Questo è un tema che rimane assolutamente nazionale e la cui soluzione non può venire fuori da un governo nell’arco di pochi anni ma è una opera lunga di salda cooperazione nazionale; se non c’è una unità nazionale non si salva il Mezzogiorno, che deve contribuire in prima persona. Per questo Sturzo era a favore di un’autonomia forte dei Comuni e delle Regioni che dovevano assumere un loro ruolo in una concezione però di solidarietà nazionale. Questo è venuto molto a mancare, perché c’è una visione, anche nel nuovo governo, in cui non intravedo nessuna politica per il Sud – a parte lo strumento del reddito di cittadinanza – che però è spalmato su tutto il Paese. Non vedo leve per cooperare a livello nazionale e dare un ruolo e una missione al Sud anche per valorizzare alcune eccellenze che ci sono.

Ad esempio nel campo della formazione, moltissimi ragazzi del Sud sono brillanti, hanno spirito imprenditoriale ma emigrano. Ci devono essere delle azioni perché si creino e sviluppino dei luoghi di produzione e innovazione che in qualche modo possano fare crescere i territori. Il punto vero è che, come diceva don Sturzo, la redenzione comincia da “noi meridionali”. Bisogna riprendere un protagonismo politico e amministrativo di indirizzo delle regioni del Sud, dove vediamo che in alcuni luoghi si stanno creando delle realtà molto interessanti e innovative; soprattutto quando si collegano con una visione europea. Ad esempio a Palermo e Napoli dove sono stati utilizzati i fondi europei abbiamo visto dei risultati. Penso anche alla Puglia, dove si è puntato alla promozione culturale e ambientale. Fa piacere che per la prima volta la capitale europea della cultura sia Matera. Si tratta di segnali che vanno messi in rete per dare alla persone che lì vivono una occasione di lavoro e di innovazione.

Il 2018 è stato l’anno europeo del patrimonio culturale in che modo la cultura europea può aiutare i cittadini ad essere più consapevoli della loro identità europea? 

Noi abbiamo voluto fortemente questo anno europeo della cultura contro tutto e contro tutti superando anche un “niet” della Commissione europea. Lo abbiamo voluto io come presidente della Commissione cultura e il governo italiano assieme ad altri paesi. E’ stato un anno importante perché capivamo che nella crisi di appartenenza, nella crisi di valori e anche in questa perdita di consapevolezza di appartenere ad una comunità di destini c’era bisogno di ripartire dalla cultura.  Monet, uno dei fondatori della comunità europea, ebbe a dire che se avesse dovuto ricominciare la costruzione del progetto europeo, lo avrebbe fatto partendo dalla cultura. Penso che la dimensione culturale, educativa e di costruzione di cittadinanza dal basso sia quella sulla quale va fatto il più importante e duraturo investimento. L’anno europeo è stato innanzitutto una messa in comune di consapevolezza e di una narrazione di una storia comune; ci sono stati moltissimi progetti transazionali che hanno interessato anche paesi che erano stati in conflitto e che hanno ricostruito insieme quegli anni ed eventi col tentativo di trovare una visione comune; questo è stato fondamentale.

Altra questione importante è stata quella relativa all’aver riconosciuto al patrimonio culturale un valore intrinseco, di riconoscimento delle comunità, delle identità ma anche di grande risorsa di produzione di valore economico e di nuova cultura. In Italia stiamo ratificando la convenzione di Faro, la quale per la prima volta dice che il cittadino ha diritto alla conoscenza, all’accesso ai beni culturali ma che è anche responsabile verso il suo patrimonio culturale.

L’educazione al patrimonio culturale, nazionale ed europeo, è una questione molto rilevante che mostra come l’Europa sia fatta di intrecci, di grandi storie. Pensiamo al grande compositore Ciaikovskij che sosteneva che un musicista non può che essere europeo e la musica, su cui si forma e studia, è il frutto di una Europa che ha dialogato. Il tema oggi è come fare in modo che tutto finisca con il 2018.

Penso alla grande emozione e a quello che abbiamo fatto per ottenere una tutela più ampia del patrimonio universale, contro la distruzione intenzionale del patrimonio, dichiarato crimine contro l’umanità. Secondo me questo ha fatto risvegliare nella coscienza degli europei la consapevolezza che c’è una storia che appartiene a tutti e che deve essere patrimonio comune e non di un singolo Paese. Il patrimonio non è solo quello materiale ma anche immateriale, spirituale, religioso. Questo è il nucleo importante su cui ricostruire un amore per l’Europa. Penso ad esempio al fatto che adesso abbiamo ottenuto una agenda europea per la cultura, quindi una policy che tocca il tema del patrimonio, le imprese culturali e creative che sono un settore promettente di sviluppo; il tema di una nuova diplomazia culturale europea e il tema della educazione e della conoscenza. Sono questi i grandi assi su cui poggiare il quarto pilastro.



Vedendo anche alle scelte del governo italiano sul versante migratorio vi è una questione europea di fondo. Uno dei limiti è la mancanza di una politica migratoria comune, che possa garantire una reale gestione dei flussi, specie nel Mediterraneo. Lei che valutazione fa di tutto questo?

Ci troviamo in una situazione paradossale: lo stesso governo che oggi impedisce di sbarcare a quei pochi migranti a Siracusa, e la cui unica parola d’ordine è sgomberare, rimpatriare (e poi non lo fa) è lo stesso governo che poi chiede all’Europa di occuparsi di più dell’immigrazione. Allora, si è sovrani o si riconosce che senza un accordo europeo non si va da nessuna parte? Oggi c’è questa contraddizione. Siamo di fronte alla sfida di un processo migratorio che ha cause diverse e che avvolge ormai il mondo; si parla di cinquanta milioni di persone che sono in movimento in Europa. E’ dunque un fenomeno strutturale e il nostro paese ha a che fare con questa questione da decenni; ma adesso viene tutto ricondotto alla voce “emergenza”. Si tratta di un ritorno indietro, perché di fatto, noi e altri Paesi europei, abbiamo chiuso le vie legali per venire in Europa. Questo è assurdo, perché è una Europa che si sta impoverendo di persone, di lavoratori e anche di giovani.

Secondo lei ci sono segnali per i quali l’Europa possa prendere una decisone comune e chiara sul fenomeno migratorio?

Da parte di alcuni paesi purtroppo c’è paura, chiusura delle frontiere e non si stanno dando le risposte che invece sarebbe necessarie. Come Parlamento europeo abbiamo approvato, con un grande apporto del centrosinistra, una riforma della convenzione di Dublino. Cosa chiediamo? Innanzitutto la solidarietà dei vari paesi con quote condivise ma obbligatorie dei migranti che arrivano e con sanzioni. Purtroppo invece nell’ultima riunione dei ministri il nostro governo, con Orban, ha sostenuto il “no” alle quote obbligatorio, con un autogol clamoroso e incomprensibile. Abbiamo anche chiesto che l’Europa sostenga le politiche di integrazione con alcuni principi base, come il diritto al ricongiungimento familiare e un’altra serie di diritti di cittadinanza e residenza.

Certamente occorre combattere insieme per tutelare le frontiere e per la lotta ai trafficanti di clandestini mentre altra cosa da fare sono politiche, da confrontare tra i vari paesi, per non lasciare soltanto al paese di primo arrivo il compito di fare tutte le pratiche per il diritto o meno all’asilo, evitando così di trattenere le persone per mesi. Ricordando però che l’artificiosa distinzione tra richiedenti asilo e immigrati per povertà o altre ragioni ha due conseguenze paradossali: da un lato chiunque viene non ha una via legale per farlo e quindi deve forzatamente rientrare tra i richiedenti asilo; dall’altro i richiedenti asilo che avrebbero diritto a questo status vengono trattati in maniera assolutamente indecente da alcuni governi.

C’è una esigenza fortissima e in questo mi fa piacere che la Chiesa, molti cattolici e molte istituzioni locali, siano dalla parte dei diritti umani e per salvare delle vite. Una gestione coordinata delle politiche migratorie a livello nazionale, locale ed europeo è necessaria; il problema è che oggi, rispetto al trattato di Lisbona la competenza dell’Europa è limitata in ambito migratorio. Ce l’ha nell’ambito dell’asilo. Vi è quindi la situazione assurda di governi nazionalisti che da un lato dicono che per l’immigrazione l’Europa deve fare di più ma non gli danno questo potere…

Però queste scelte del Parlamento europeo sono poco note e forse andrebbero fatte conoscere meglio

A proposito della riforma dell’accordo di Dublino, questa non è stata una sola decisione del Consiglio dei ministri, perché come noto Parlamento e Consiglio sono le due camere dell’Europa. Al Parlamento sovranisti, nazionalisti, ecc. hanno detto non procediamo e hanno lasciato le cose com’erano, pertanto Salvini se la prenda con sé stesso.


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