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Pd, oltre la lenta agonia - dal blog sull'Huffington Post del sottosegretario all'Economia Pier Paolo Baretta

23 Maggio 2018

Appare come una lenta agonia, quella che vive il Partito democratico. Nel mondo e in Italia succede di tutto. Da Trump all'Ilva, passando per il contratto di governo, gli argomenti per stare in partita ci sarebbero.

Eppure, l'immagine prevalente che il Pd riesce a far passare è quella di un gruppo dirigente ripiegato su se stesso; diviso, senza esplicitarne le vere motivazioni strategiche e, perciò, fintamente unito. Di rinvio in rinvio, di compromesso in compromesso, in nome di un'unità interna ridotta a feticcio, il partito muore.

L'assemblea di sabato 19 maggio ha rasentato questo rischio. Era, francamente, impensabile che la massima assise del secondo partito italiano, non discutesse di politica, ovvero non dicesse la sua sul governo possibile, sul contratto, etc. Eppure, c'è voluto un ordine del giorno, proposto dopo un paio d'ore di colloqui di retro palco, approvato con un voto divisivo, ma da tutti interpretato come: discutiamo d'altro, persino del governo, perché siamo divisi sul segretario.

Il cambio di ordine del giorno, però, non è bastato, perché Martina, nella sua relazione, ha parlato non solo di Lega e 5 Stelle, ma, anche, del Partito, del Congresso – da celebrare al più presto – e di sé. Alla fine di una travagliata giornata – nella quale il segretario uscente, invece di intervenire nella discussione e, semmai, dare battaglia, se ne va (e, per un po', era sembrato che questa fosse la linea di molti) – la relazione è approvata a minoranza. Tutto, dunque, rinviato a luglio. Anche la convocazione di quel Congresso che tutti volevano.

Bisogna interrompere questa spirale. Personalmente penso che non c'è nessuna ragione per non lasciare a Martina la direzione del Partito. La delicatezza del quadro politico consiglia di garantire continuità. Il Congresso, necessario e urgente, si occuperà, invece, della strategia, dell'idea di Paese, di partito (forma e sostanza), di leadership.

Intanto, si discuta con maggior incisività su quanto sta accadendo in Italia. Il cambiamento profondo che sta alla base del voto va interpretato e riconosciuto. Il primo modo per farlo è un'analisi schietta e condivisa sulle cause della sconfitta del riformismo, del Pd e del centrosinistra.

Subito dopo il 4 marzo, ci siamo trovati impelagati nella diatriba 5 Stelle sì o no; questa discussione ha, di fatto, funzionato da lenitivo delle ferite ricevute dalle urne; ma ci ha allontanato dalle cause. Il secondo modo è quello di non sottovalutare le potenzialità del nascente governo.

Il contratto di governo, stipulato, tra Lega e 5 Stelle, è un'accozzaglia rischiosa di riproposizione integrale di programmi elettorali, tutt'ora generici, e di poche, inaccettabili, certezze, di cui la più clamorosa è la problematica relazione con l'Europa, probabilmente il punto più delicato e irricevibile del contratto (accompagnato dalla filiazione a Putin).

Ma, forse, proprio quella sua genericità potrebbe consentire di applicarlo con gradualità e flessibilità, almeno sul medio periodo (due anni?), senza perdere il consenso, che, infatti, in questi strani 80 giorni, non solo non è calato (alla faccia del fatto che, per la prima volta, tutta la stampa era critica), ma si è consolidato, quando non cresciuto, come nel caso della Lega.

Evitiamo, dunque, di ripetere l'errore fatto dalla sinistra – se ne avvertono i prodromi anche nel dibattito di sabato del Pd – quando al governo andò Berlusconi. Anni di demonizzazione, di messaggi del tipo: "sono incapaci, sono inesperti...", o di attacchi personali e moralistici, che, se fini a se stessi, non hanno funzionato.

Anzi, ci hanno condannato a lunghi periodi di minorità, perdendo di vista quanto stava avvenendo nella società e lasciando agli "incapaci" la rappresentanza del cambiamento. L'ultimo esempio: la vera critica politica alla scelta del professore Conte è, ben oltre l'improbabile curriculum, l'essere, lui, l'interprete dell'esatto opposto di quanto sbandierato: non eletto dal popolo e tipico, anzi "tipicissimo" esponente del mondo dei poteri, più o meno forti, combattuti a tutto campo dai 5 Stelle.

Il punto è che Lega e 5 Stelle stanno dando risposte sbagliate a domande vere. I riformisti hanno dimostrato di non avere le risposte o di averle incerte, confuse. In questo sta la difficoltà dei riformisti, della sinistra e dei partiti. Ma anche del centrodestra, con la crisi di Forza Italia, mangiata dalla Lega.

E, questo, non perché non esistano più destra o sinistra (come teorizza Casaleggio), ma perché la destra e la sinistra sono rimaste attaccate a schemi culturalmente, sociologicamente ed economicamente superati. Perché è cambiato il popolo, è cambiato il senso e il contenuto dei suoi bisogni (anche quelli primari), delle sue appartenenze post-ideologiche, dei suoi riferimenti ideali.

La risposta sta nel riconoscere questo mutamento profondo (non casualmente si parla, anche a proposito del lavoro e della sua percezione, di mutamento "antropologico") e ripartire dal merito dei problemi. Contestando, punto su punto, le ricette populiste e protezioniste e, soprattutto, prospettando, soluzioni solidaristiche e riformiste, in un'ottica di governo.

Non trascuriamo, in tal senso, la questione che, essendo il contratto di governo, così come è scritto, inattuabile, la sola strada, per loro praticabile, sarà, in molti casi, un'estensione camuffata di molte delle scelte fatte da noi in questi anni di governo.

Come affronteremo quel tornante? Saremo in grado di essere un'opposizione che sa distinguere, senza flettere, ma anche senza nascondersi, aprioristicamente, dietro "l'anti..."?

Un sentiero impervio ci attende, ma è il solo che può consentire al Riformismo italiano di risalire la china.


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