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Liberare Aldo Moro dal "caso Moro" - dal blog di David Sassoli sull'Huffington Post

09 Maggio 2018

L'immagine che abbiamo di Aldo Moro è quella di un prigioniero, con la barba lunga, i capelli spettinati, lo sguardo fisso e la camicia sbottonata. È un'immagine ma anche un contenuto, perché fissa nella memoria del paese un momento tragico della sua storia. Il leader indiscusso della Democrazia cristiana e del paese si avvia verso la morte. È il 1978 e quei 55 giorni del sequestro, con la strage degli uomini della scorta e l'assassinio del prigioniero, fissano un prima e un dopo nella storia della Repubblica. Eravamo a trentacinque anni dalla fine del fascismo, così come oggi siamo a quarant'anni da via Fani. E a contrassegnare il prima e il dopo sono la presenza e l'assenza di Aldo Moro. Fino a quel momento lui c'era sempre stato. C'era stato soprattutto nei passaggi che imponevano audacia e prudenza, determinazione e flessibilità: negli anni della Costituente e del centrismo, nella costruzione dell'incontro fra cattolici e socialisti, nella tenuta del carattere antifascista della Repubblica di fronte ad una destra eversiva alimentata da cenacoli internazionali, nel dialogo con il Partito comunista italiano per consentire di affrontare la crisi del sistema politico senza arroccarsi, ma cercando di superarla allargando l'area di consenso alla maggioranza. Passaggi difficili, segnati da forti tensioni interne ed esterne, da diffidenze e addirittura da tentativi di colpo di Stato. La figura di Moro è quella di un sacerdote della Repubblica a cui ci si affida nel momento del bisogno.

Non è stata un'Italia tranquilla quella degli anni '50, '60 e '70, nonostante il boom economico, l'affermazione di diritti e la crescita di un'opinione pubblica più esigente. L'Italia non era un paese qualsiasi dell'Europa occidentale, ma una vera e propria frontiera. Marcava il confine fra Est e Ovest e questo ne limitava i movimenti. Sul nostro paese l'attenzione internazionale era sempre al massimo grado di osservazione. Come in ogni frontiera, la sfera politica e quella militare non ammettevano vistose dissonanze.

Le ricerche storiche negli ultimi vent'anni hanno consentito di precisare i numerosi conflitti e incomprensioni che via via hanno accompagnato le relazioni fra il sistema governativo italiano e il sistema internazionale di riferimento. Di notevole interesse al riguardo il lavoro dello storico

Umberto Gentiloni Silveri, "L'Italia sospesa" (Einaudi, 2009), in cui emerge la capacità della classe politica italiana di muoversi con sufficiente autonomia consentendo di non snaturare i presupposti del sistema democratico. Lo testimoniano i report degli incontri delle varie delegazioni ministeriali italiane alla Casa Bianca; lo dimostrano le resistenze della classe politica, in numerosi passaggi politici, ad abbandonarsi a forme di rigido atlantismo (vedi Mastrolilli-Molinari "L'Italia vista dalla Cia", Laterza 2005).

Fino al 1978 in ogni passaggio difficile c'era la sicurezza della presenza di Moro. Era stato così nel superamento dell'esperimento Tambroni, nella nascita del centrosinistra organico con la forte opposizione della Chiesa italiana, nella crisi per la formazione del secondo governo di centrosinistra quando "il tintinnar di sciabole" e le pressioni minacciose di circoli atlantici cercarono di interrompere la collaborazione fra la Dc e il Partito socialista italiano. Questo passaggio vide Moro protagonista assoluto della difesa dell'autonomia del paese, anche a costo di sentirsi male per le difficoltà a resistere alle pressioni della destra interna e internazionale, come ha ben raccontato Mimmo Franzinelli nel suo documentatissimo "Il piano Solo" (Mondadori, 2010).

"Moro è uomo tenace, legato al progetto politico", scrive Pietro Nenni nei " Diari 1957-'66". Una definizione che stride con l'immagine che rimbalzava sui media, propensi a definirlo fumoso, arzigogolato, addirittura inconcludente. In realtà il carattere schivo e pacato non deve trarre in inganno. Moro era un uomo scrupoloso, attento ai dettagli, fine ragionatore. Un costruttore di equilibri politici sempre più avanzati portati avanti con lucidità e coraggio. Chi ha potuto esaminare le sue carte, custodite presso l'Archivio di Stato, si sarà reso conto della mole di materiali conservati nel suo studio in via Savoia. Un vero antro di mago Merlino, con rapporti che arrivavano da tutte le ambasciate del mondo, carte riservate, report di amici e personaggi influenti, documenti governativi protocollati, carteggi, rassegne stampa internazionali, dossier. Per trent'anni, materiali di ogni tipo e provenienza, sistemati metodicamente, arrivavano al Presidente anche quando non aveva incarichi ministeriali. Le informazioni servivano ad avere notizie di prima mano, a capire grandi e piccole strategie, sommovimenti, reazioni, attrezzare risposte e offrire rassicurazioni.

Costruire una politica non è intuirla, ma darle consenso. E non è mai un procedere per strappi. "In Moro - scriverà Pietro Scoppola - non vi sono illusioni illuministiche e neppure l'idea che si possa costruire la storia senza difficoltà, senza ostacoli, solo intuendo gli obiettivi e dichiarandoli. In Moro c'è il senso che la costruzione è lenta, faticosa, che continuamente si misura con la debolezza degli uomini, con l'incoerenza, con la caduta. E' un insieme di pessimismo e speranza".

E per incoraggiare o placare, rassicurare e convincere vi è la parola. Per Moro è strumento della politica. Parole soppesate, calibrate che lascino spazio a molteplici interpretazioni in cui gli avversari non trovino mai la porta chiusa e gli amici non percepiscano abbassamenti di guardia.

La parola e il tempo. Lungo, lento. Moro scrive giovanissimo che la politica lascerà sempre insoddisfatti, mai appagati. Non è uno scrigno che custodisce la felicità. Le riflessione giovanili, contenute nel volume di Lucio D'Ubaldo "La vanità della forza" (Eurilink, 2016), offrono spunti per comprendere il percorso formativo che ritroveremo coerente nell'età matura.

L'immagine di Moro, in trent'anni di cronaca italiana, è stata quella di un uomo riflessivo, appartato, a volte malinconico, carico di pudore, e di un pudore antico e sofferto. E soprattutto quella di un uomo paziente. Dello Stato sa tutto, conosce tutti, non è una meteora. Nel '48, a 32 anni, è sottosegretario agli Esteri e da allora capogruppo della DC, ministro tante volte, segretario della DC, Presidente del Consiglio. E' professore di diritto, un filosofo del diritto, ed è padre di quattro figli.

Prima del rapimento era considerato un instancabile mediatore. In tanti, e Henry Kissinger è fra costoro, lo indicavano come un uomo che sfumava sempre e non decideva mai. Sommava su di se anche fisicamente il peso di una politica alla ricerca del male minore. Fra ideali e realtà lo scarto è sempre grande. E la politica è il luogo dove interessi e valori devono trovare composizione.

Moro mediatore, ma con una missione da compiere: quella indicata fin dal dopoguerra dalle migliori intelligenze cattoliche che, nella DC o alla Costituente, pensavano che per rendere forte la democrazia, le istituzioni dovessero poggiarsi su un vasto consenso popolare. Con Dossetti, La Pira, Fanfani, Lazzati c'era anche Moro. Allargare le basi democratiche dello Stato, si dirà in seguito. E allargarle a sinistra, ai socialisti prima, ai comunisti poi, con una formula politica tutta da inventare, ma sempre senza allarmare, impaurire, tranquillizzando, coinvolgendo e avvolgendo, alla ricerca di un consenso largo. Consenso: questo è il principio di una politica democratica.

La classe dirigente era abituata ad affidarsi ad Aldo Moro come ad uno che consiglia, invita alla prudenza, stimola. Ma dal 16 marzo '78, per la prima volta da trent'anni lui non c'è più. In quei 55 giorni di sequestro, Moro non può incontrare i suoi colleghi e loro non riescono ad ascoltarlo.

Un mese prima del rapimento, dopo anni di dibattiti e polemiche sulla strada da seguire per uscire da una crisi politica ed economica molto grave, il leader DC convince il suo partito ad accettare una collaborazione con il PCI. I comunisti erano da sempre l'avversario da battere ad ogni competizione elettorale e l'anticomunismo era un collante forte e robusto per la DC. Ma la situazione era tale che alcuni steccati dovessero cadere per consentire di superare la crisi con la nascita di un governo monocolore democristiano.

Moro parla a braccio ai gruppi parlamentari del suo partito ed il discorso per contenuto, psicologia, lessico, ritmo, sviluppo, tecnica di ragionamento, capacità di convincimento, coinvolgimento emotivo, è un capolavoro dell'oratoria politica. Il leader DC fa sue le obiezioni che gli vengono rivolte, se ne appropria, le svuota, le usa per rafforzare il suo punto di vista.

Per molti l'accordo con il Partito Comunista è un passaggio spericolato, ma Moro convince i suoi amici e lo stesso fa con il Pci che, per la prima volta accetta di sostenere un governo di soli democristiani, anzi di DC scelti negli ambienti più moderati, senza entrare nell'Esecutivo. Ancora una volta istituzioni sostenute da un sempre più largo consenso popolare.

La democrazia è processo, non sono soltanto regole. Il governo di solidarietà nazionale deve nascere proprio la mattina del 16 marzo. Moro deve andare in Parlamento per il battesimo del nuovo governo, poi all'Università perché ci sono le tesi di laurea.

In via Fani finisce il prima e da quel momento Moro non ci sarà più.

La sera del 15 marzo è la viglia del sequestro ma anche, come abbiamo visto, la vigilia di un passaggio storico nella vita della Repubblica. Giovanni, il figlio dello statista, ha 20 anni, torna tardi a casa la sera e trova suo padre seduto in poltrona a leggere un libro. Si saluteranno per l'ultima volta, come racconta Miguel Gotor nel "Memoriale della Repubblica" (Einaudi 2011). Il testo, insieme a quello di Giovanni Bianconi "Eseguendo la sentenza (Einaudi, 2008), è obbligatorio per chiunque voglia capire il contesto e quanto avvenuto in quei 55 giorni.

Quella sera Aldo Moro sta leggendo l'opera del teologo protestante Jürgen Moltmann, "Il Dio crocifisso". Un classico che sarà preso a prestito dai teorici della teologia della Liberazione. Poche ore dopo Moro diventerà "il caso Moro" e il politico, l'intellettuale e il giurista resteranno schiacciati da una vicenda per molti aspetti ancora da chiarire, ma che non lo riassume. Aveva 61 anni, sembrava molto più anziano, e le sue riflessioni hanno ancora molte cose da dire ad un paese in cui l'orgoglio prevale sulla responsabilità e nel quale la moralità della politica non si valuta mai nelle conseguenze che si provocano.


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