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I soldi per la Cultura devono raddoppiare. E voglio aprire Pompei di notte - Intervista de la Repubblica al ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini

15 Agosto 2014

La riforma è in arrivo, nessun contrasto col premier. "Investire di più è un'idea della Leopolda". Il tempo dei tagli è finito. Vorrei portare la spesa per la cultura dallo 0,10 allo 0,24 del Pil, come in Francia.



di LAVINIA RIVARA

Gli storici dell'arte che liquidano la sua riforma della cultura come "macelleria culturale"? «Dimostrano che è una vera riforma». L'accusa di voler trasformare musei e siti in macchine per far soldi? «La valorizzazione del nostro patrimonio artistico è la condizione per tutelarlo meglio». I contrasti con Renzi sulla riforma? «Leggende metropolitane». Dario Franceschini da 5 mesi guida il ministero dei Beni culturali e del Turismo tra successi e polemiche. Ha cacciato le bancarelle dai monumenti, ha incentivato il privato, ha aumentato le domeniche gratuite nei musei, ma ha tolto i biglietti gratis agli over 65. E ora affronta la madre di tutte le battaglie, quella con le sovrintendenze, che lo accusano di consegnare i musei a manager interessati solo al marketing. Lui tira dritto, anzi rilancia. E alla vigilia di una manovra fatta tutta di tagli, apre una nuova sfida sul tavolo del governo: raddoppiare la spesa per la cultura nella prossima legge di stabilità. Una richiesta che motiva, con una punta di malizia, appellandosi alla filosofia renziana.

Franceschini, vuole aprire una guerra anche con il ministro dell'Economia?

«Quando ho giurato al Quirinale dissi che mi sentivo chiamato a guidare il ministero economico più importante. Sembrava una provocazione, ma è proprio così. Ogni Paese deve trovare la sua vocazione: l'Italia è quello con più siti dell'Unesco e il maggior patrimonio artistico del mondo. Forse è arrivato il momento di investire sulla sua bellezza. Può essere un fattore decisivo per uscire dalla crisi».

E come si propone di invertire la tendenza?

«La cultura viene da 15 anni di tagli. I governi Letta e Renzi li hanno fermati. Ma è arrivato il momento di investire. Al punto 63 della prima Leopolda c'era l'obiettivo di portare la spesa per la cultura all'uno per cento del Pil. Ci vorrà qualche anno per farlo. Nel 2015 mi basterebbe raddoppiare lo 0,10% attuale, avvicinarci almeno allo 0,24 della Francia. Voglio applicare le idee di Matteo».

La sua riforma della cultura viene contestata per l'accorpamento delle sovrintendenze e soprattutto per il fatto che la gestione dei musei sarà affidata a dei manager. Vuole fare business con l'arte?

«Le proteste dimostrano che questa riforma è una vera svolta. Perché separa tutela e valorizzazione. Le sovrintendenze continueranno ad occuparsi della prima, allargandosi alla ricerca in connessione con le università, mentre creiamo dei poli museali per la valorizzazione. Non ci sono solo i 20 più grandi, gli Uffizi, Brera o Pompei, ne esistono altri 400 con potenzialità enormi ma allestimenti di 60 anni fa e magari neanche un bookshop. E a guidarli non arriveranno i manager della CocaCola, ma storici dell'arte, architetti, specializzati in gestione museale. Del resto i primi passi fatti in questa direzione hanno avuto successo. Con le domeniche gratuite e orari allungati, incassi e visitatori sono aumentati in un mese di oltre il 10%».

Ma non è più di sinistra dare priorità alla tutela piuttosto che al commercio?

«Questa è una grande sciocchezza. Il Louvre fa tutela, ricerca, formazione ma anche marketing. E lo fa quando la Francia è governata dalla sinistra e quando è governata dalla destra. La tutela è un dovere, la valorizzazione è la condizione per tutelare meglio».

Lei ha detto che questa è la riforma più renziana. Eppure è ferma nell'anticamera di palazzo Chigi. Si dice perché il premier vorrebbe un ridimensionamento ancora più radicale delle sovrintendenze. E così?

«In questa stagione politica le polemiche, gli scontri interni, non hanno più molto spazio. E quindi si inventano leggende metropolitane per abitudine. Ma non c'è nessun contrasto con Matteo. La riforma sarà approvata in uno dei prossimi Consigli dei ministri».

E stato criticato per il tentativo di coinvolgere i privati nella valorizzazione del patrimonio artistico. Finiremo con una Pompei che pubblicizza un paio di scarpe?

«Pubblico e privato non sono in contrapposizione. Il patrimonio è pubblico mai privati possono contribuire integrando, e non sostituendo, le risorse statali. Ora in Italia c'è un incentivo fiscale tra i più forti d'Europa, una detrazione del 65%. Ma viene concessa ad atti liberali non a sponsorizzazioni o a gestioni, che sono altra cosa».

Si è ipotizzato anche per Pompei l'intervento di un privato, come per Ercolano. C'è già qualche contatto?

«A Pompei non abbiamo un problema di risorse, la sfida è utilizzare quelle della Ue nei tempi fissati, altrimenti si rischia il commissariamento. Tuttavia a me piacerebbe che una grande impresa italiana si facesse carico di un progetto di illuminazione per consentire l'apertura anche notturna del sito. Penso per esempio all'Enel. Ma lancio una proposta anche per la Domus Aurea: con 30 milioni in quattro anni si può riaprire tutta l'area sovrastante, oggi chiusa, e far tornare il sito interamente fruibile».

A parte Pompei le bellezze artistiche del sud sono quasi ignorate dai grandi tour. Non sarebbero le prime da valorizzare?

«L'85% dei visitatori stranieri non va più giù di Roma. L'Italia è il quinto paese al mondo per numero di visitatori, ma è il primo che tutti vorrebbero visitare. Abbiamo potenzialità enormi. Ovunque, anche fuori dai grandi itinerari, si trovano bellezza e creatività. Ma torniamo al punto di partenza: è ora di investire più risorse»

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